5.12.12

Le ragioni dei vinti (di David Bidussa)

Lo scritto che segue è tratto dalla recensione a un libro sulla vicenda di Lotta continua, opera di uno storico, Giovanni De Luna, che ne fu partecipe. L’approccio di Bidussa è convincente. (S.L.L.)

In un saggio dal titolo Vedere i lavoratori. La fotografia militante (pubblicato in «Studi e ricerche di storia contemporanea», n. 59, 2003), Uliano Lucas ha ricordato come intorno alla seconda metà degli anni '70 si registrasse un cambiamento repentino: la sua macchina fotografica da «occhio amico», quale era stata fin dal '68, intorno al 1978 iniziava a essere percepita come «spia». Gli anni '70 non furono un blocco unico e non furono solo terrorismo. Quel decennio fu lacerato da molte divisioni e molto complicato. Giovanni De Luna, nel suo ultimo libro (Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli) in cui al centro sta Lotta continua, ha provato a ripercorrerlo mettendo partendo da un «vuoto di memoria», quello dei morti che nessuno ricorda.
Che cosa si nasconde dietro a quell'oblio? Quel decennio fu lacerato da molte divisioni e molto complicato. Per raccontarlo occorre fare un'incursione nel vissuto di quegli anni e tra il 1975 e il 1976. Il composto alchemico altamente instabile, che aveva retto nella prima metà degli anni '70, salta definitivamente in quel biennio. Da quel momento diviene prevalente il fascino per l'organizzazione. Lì inizia la stagione della lotta armata. Ma ciò che precede tutto questo non è un percorso obbligato verso quell'esito.
Ogni generazione politica ha la sua scena di iniziazione e a seconda di come legge e vive il proprio tempo; delle genealogie che crea; di come riordina il mondo intorno a sé. Lì prende corpo una memoria immediata che è la struttura di spiegazione che nel presente giustifica e spiega l'agire politico e il suo significato. Per molti quella scena ruota intorno a Piazza Fontana e poi alla lunga scia di misteri che popolano gli «anni neri della Repubblica».
Tuttavia, a differenza di un luogo comune, la Resistenza (spesso il suo mito) non entra in quella memoria, se non più tardi, prima ci entrano altre scene: quelle delle rivolte contadine e delle periferie (è uno dei motivi per cui Lotta continua avrà un interesse per la rivolta di Reggio Calabria); il fascino dell'autogestione e dell'assenza dello Stato; l'idea della rivolta contro il potere. Un aspetto che fa di Lotta continua originariamente un movimento del '68 e non un'esperienza rinnovata delle eresie comuniste della prima metà del '900. Con un solo vero neo: il silenzio e l'insensibilità rispetto ai dissidenti all'Est…
Libro non salvifico - quello di De Luna - che si propone di fare un bilancio di una stagione politica. Una vicenda che ha al centro la storia di Lotta Continua tornata a popolare l'immaginario collettivo dal 1988 in poi, ovvero dal momento in cui si riapre l'inchiesta sull'assassinio del commissario Luigi Calabresi in seguito alla confessione di Leonardo Marino e che per molti riduce una storia complessa solo a quella scena come se quella fosse la matrice vera da cui partire e intorno a cui spiegare tutto: la pratica della violenza; il mito operaio; il pericolo golpista dopo le bombe di Piazza Fontana; la convinzione che il potere fosse in ogni modo un territorio sottratto al controllo della legge e che vincente sarebbe stata solo una risposta omologa e contraria.
Un insieme di sollecitazioni che improvvisamente tra il 1975 e il 1976 deflagrano: e che portano allo scioglimento di Lotta Continua nel novembre 1976.
Quello di Giovanni De Luna non è un libro leggero. E' un testo da cui si esce consapevoli che una storia è finita, ma che è materialmente impossibile dimettersi da essa se non al prezzo di un confronto serrato, in cui la prima cosa da abbandonare sono le molte cose che si danno per scontate. Così, per esempio, non si tratta di guardarla come la ripetizione di un nuovo 1917, bensì come una vicenda che ha i tratti del '48 (del 1848) europeo. Una vicenda che, una volta chiusa, pone ai suoi sopravvissuti, che rifiutano la nostalgia o la recriminazione prima ancora che la riflessione sulla propria sconfitta politica, la condizione dell'esilio e la sensazione della fine di un mondo e del suo vocabolario politico…

il manifesto, 4 novembre 2009

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