11.1.13

Il papiro di Artemidoro (Federico Condello)

Federico Condello, nell’articolo che segue (dal “manifesto”), fa il punto, attraverso la recensione di un libro di Luciano Canfora, sul cosiddetto “papiro di Artemidoro”, cioè su un papiro – prima in possesso di un privato collezionista, che negli anni 90 del secolo scorso fu presentato come una grande scoperta archeologica e filologica, visto che conteneva, insieme ad altre stravaganti scritture e a curiosi disegni anatomici, ampi frammenti di un testo riferibile al celebre geografo dell’antichità Artemidoro di Mileto (da non confondersi con l’Artemidoro di Daldi autore di un’opera sull’interpretazione dei sogni di cui c’è traccia in questo stesso blog). La controversia sull’autenticità, aperta nel 2006 appunto da Canfora, sembra giunta a soluzione: tra gli studiosi l’opinione oggi più diffusa è che si tratti di un falso ottocentesco e che nessuna sezione del papiro sia attribuibile ad Artemidoro. (S.L.L.)
Chi al nome di «Artemidoro» oggi dà segni di fastidio, come di fronte a una polemica che abbia fatto il suo tempo, saturato le cronache e annoiato i cosiddetti «lettori colti», mostra di aver letto poco – succede, ai lettori colti – e di aver capito ancor meno. Del resto, fra un’accademia che insiste nella sua cauta epoché, e un più nutrito pubblico impossibilitato a seguire, nei suoi dettagli, una vicenda tanto complessa, si rischia di perdere di vista il punto fondamentale. E cioè che il «caso Artemidoro» chiama in causa i metodi stessi della filologia, i fondamenti di ogni expertise artistica, e la credibilità di rilevanti istituzioni pubbliche e private cui è affidata, per legge, la gestione e la valorizzazione dei nostri beni culturali.

Tre milioni di euro
È questo un caso – lo ha ricordato recentemente Silvia Ronchey – in cui metodo, deontologia ed etica si intrecciano. E del resto non c’è vicenda di falsificazione, dai Protocolli anti-ebraici ai Diari mussoliniani, che non abbia contato, in ultima analisi, sul fattore tempo e sul fattore noia. Alla fine i falsi, in qualche modo, si canonizzano, complice l’ottusità o lo snobismo di chi dichiara «superati» i problemi non risolti. Bene dunque insistere, perché la ricerca procede e dà risultati che meritano notizia.
E bene fare il punto della situazione. Era il 2006, quando il papiro di Artemidoro (stimato, e poi pagato, quasi tre milioni di euro) fu giudicato un falso da Luciano Canfora. Le reazioni furono sprezzanti: «un divertissement, a mezzo fra burla goliardica e provocazione situazionistica», scrisse Salvatore Settis. «La questione dell’autenticità» – dichiarò l’altro editore italiano del reperto, Claudio Gallazzi – non poteva meritare «più di dieci righe».
Le «dieci righe» però sono diventate pagine e pagine. E la questione dell’autenticità si è trasformata in un vasto dibattito internazionale, in cui è ormai posizione di minoranza – per non dire residuale – quella di chi crede che il famigerato papiro debba essere integralmente attribuito ad Artemidoro. Di fatto, dunque, il «papiro di Artemidoro» non esiste più. E in molti, in Italia come altrove, considerano la diagnosi di falsità non solo ipotesi legittima, ma tesi probabile, dinanzi alle mille incongruenze del reperto. Lungi dall’apparire un divertissement, «la controversia artemidorea» – ha pronosticato uno studioso imparziale e autorevole come Luigi Lehnus – «resterà nella storia delle grandi controversie filologiche».
Ma la storia è in pieno corso, e le novità rilevanti. Da una parte, si è dimostrata definitivamente falsa la fotografia che immortala il papiro nella sua forma originaria, cioè l’ammasso di cartapesta noto come Konvolut. Uno scatto unico, esibito per la prima volta nel marzo 2008 al fine di tacitare gli scettici, e già condannato dalle analisi di Silio Bozzi, che nella primavera del 2009 ne denunciò per primo la natura di grossolano fotomontaggio. Il colpo di grazia all’infelice “falso nel falso” è ora inferto dal volume Fotografia e falsificazione (Aiep 2011, pp. 128, euro 10), con contributi, fra gli altri, di Giovanni Bottiroli, Salvatore Granata e dello stesso Bozzi.

Dal cranio di Zeus
La fotografia del papiro (stampa e negativo, a quanto risulta) pare posteriore di anni all’oggetto ritratto, cioè al papiro in fase di restauro: un adynaton evidente, perché quando la foto fu scattata il Konvolut non esisteva più, ed esisteva soltanto il papiro restaurato. Le tracce di testo e immagini riconoscibili sulla fotografia si mostrano indifferenti a strappi, pieghe e asperità della superficie. E nessuna di essa sembra volersi piegare alle più elementari leggi della prospettiva. Ce n’è abbastanza per giungere a una sola e semplice conclusione: la fotografia è frutto di ritocchi che hanno tramutato
l’immagine di un qualsiasi papiro vergine in un’immaginaria istantanea del papiro artemidoreo, eternato in fase di restauro, tramite un corposo trasferimento di dettagli desunti dal papiro ormai disteso. Tale conclusione ha almeno un corollario: nessuno, verosimilmente, ha mai visto il papiro nel suo stato originario.
Ovvero, più probabilmente: il papiro non ha mai avuto uno «stato originario». Esso è nato tale qual è, come Atena dal cranio di Zeus. Tali analisi mostrano la fragilità dell’«evidenza» – per dirla all’inglese – su cui si fonda la difesa a oltranza del reperto. «Autenticità» e «riproducibilità tecnica» sono nozioni in conflitto, insegnava Benjamin, ma qui il conflitto rischia di doversi prendere alla lettera: un papiro che chiama a propria difesa simili prove d’illusionismo non rischia di risultare ancor più sospetto? Ma si liquidi pure il caso come scaramuccia marginale. Per quanto concerne il reperto in sé, le novità sono ancor più notevoli: se ne troverà un’appassionante sintesi ne La meravigliosa storia del falso Artemidoro di Luciano Canfora (Sellerio 2011, pp. 251, euro 14).

La specialità di Simonidis
Per quante e quali ragioni il papiro debba essere giudicato un falso è quasi inutile riepilogare: anacronismi linguistici e fattuali, incongruenze geografiche e geopolitiche, ricorso a testi posteriori di secoli alla data del reperto (il falsario crede di riprodurre il frammento più lungo del geografo efesino: e riproduce in realtà un brano del suo tardo epitomatore Marciano). E via elencando.
Con una particolarità su cui troppo spesso si tace: le puntuali coincidenze riscontrabili fra il testo del papiro – e specie del suo proemio – ed espressioni impiegate, in opere edite e non, dal falsario Costantino Simonidis. Su ciò si attendono spiegazioni verosimili. In ogni caso, approfondire la conoscenza di questa esimia figura dell’antichistica ottocentesca è un contributo essenziale all’analisi del papiro stesso. Ed è qui che i progressi sono più cospicui. Oggi sappiamo che la specialità di Simonidis furono, fin dal principio della sua carriera, i falsi geografici; e che Artemidoro fu tra i suoi autori prediletti, al punto che il falsario ne plagiò una pagina per tratteggiare un proprio mémoire autobiografico. Sappiamo che Simonidis ebbe diretta conoscenza di tutti i testi presupposti dal nuovo “Artemidoro”, e che addirittura familiari gli furono alcuni manoscritti antichi che condividono con il papiro – unici paralleli possibili – spiccate peculiarità paleografiche. Sappiamo infine che quasi tutti i tic stilistici di Simonidis trovano puntuale riscontro nel reperto: dall’uso di caratteristici pleonasmi all’invenzione di singolari sigle o compendi, ideati per épater, con ovvio «effetto di reale», filologi e papirologi (in particolare il «sampi conmoltiplicatore», un bizzarro segno numerale su cui fin troppo si è speculato, e che mostra ora di costituire una vera e propria firma dell’abile falsario). E l’elenco potrebbe proseguire: un elenco imbarazzante, per chiunque voglia respingere l’ipotesi della falsificazione o trovare per essa candidati più idonei di Simonidis.
Ma un problema ancor più generale può dirsi ormai risolto. Il papiro così com’è rischia infatti di infrangere una fra le regole fondamentali della falsificazione. Una regola nota fin dai tempi di Dionigi d’Alicarnasso: il falso, di norma, è sempre troppo vero; il falso somiglia troppo all’autore falsificato. Possibile dunque che un manipolatore competente come Simonidis abbia contraddetto in
tanti punti l’Artemidoro autentico?

L’onere della congettura
Mano a mano che il ritratto storico e biografico di Simonidis si completa, sappiamo che ciò è possibile, anzi perfettamente spiegabile: il papiro di Artemidoro riproduce esattamente l’immagine che del geografo antico fu canonica all’altezza del XIX secolo. Simonidis non sbaglia: semplicemente, egli si attiene a un’immagine sbagliata di Artemidoro. Un’immagine determinata da opere coeve – scientifiche o divulgative – di cui Canfora ricostruisce utilmente la genealogia.
Fin qui, dunque, tutto si tiene. Se non fosse per alcuni dettagli ancora difficili a spiegarsi, pur nell’ipotesi del falso: a partire dalla natura vistosamente composita del manufatto. E qui Canfora si assume fino in fondo l’onere della prova, e, dove serve, della congettura, perché «non ha senso rinunciare a spiegare. Non esistono fenomeni inspiegabili, bensì, al più, fenomeni che non sono ancora stati spiegati». Ed ecco il punto: siamo certi che questo papiro milionario, questa star delle esibizioni museali – oggi privo di una sede espositiva e mestamente abbandonato in un laboratorio di restauro, poco fuori Torino – sia un solo papiro, sia cioè un reperto unitario? Canfora ormai ne dubita.
Quel che chiamiamo «papiro di Artemidoro» nasce dalla giustapposizione – mai davvero spiegata né argomentata – di almeno tre grandi frammenti, che costituiscono altrettante «sezioni» distinte: un blaterante «proemio» geografico arricchito da un ampio lacerto dell’opera artemidorea; una «mappa» che pare un test di Rorschach, in cui ciascuno vede ciò che vuole; una sorprendente ma in sé coerente sequenza di disegni a soggetto anatomico (mani e piedi di cui si è ormai mostrata la perfetta coincidenza con tavole risalenti alla manualistica pittorica del Settecento). Questo confuso amalgama è ridotto a unità solo dal contenuto del verso: un fantasioso bestiario che ricopre uniformemente i frammenti dei papiro, e che tanto contribuisce alla sua natura strabiliante.

Una ipotesi nuova
Poiché proprio il verso sembra essere stato tenuto al riparo, per ora, dalle analisi chimico-fisiche che hanno interessato il recto, Canfora non può esimersi dal formulare un’ipotesi radicalmente nuova: che tre distinte prove di Simonidis – un’opera geografica, una mappa, un de pictura: altra ossessiva passione del falsario – siano state successivamente unificate tramite la realizzazione, totale o parziale, dei disegni che occupano il verso. È una «seconda mano» dello stesso Simonidis? O bisogna pensare a un intervento molto più recente, e dunque molto più inquietante? Certo, la disinvoltura con cui si è prodotta al bisogno una fotografia del Konvolut non giova a rasserenare gli animi.
Comunque sia destinato a evolvere il dibattito – e questa sintesi con rilancio non può che rianimarlo – è certo che siamo di fronte a un caso serio. Serviranno serietà e pazienza per giungere al fondo della questione.
E serviranno gli sforzi congiunti della comunità filologica nazionale e internazionale, per togliere a questa controversia ogni apparenza di parzialità. Riconoscere un falso e motivarne la genesi – sosteneva lo Scaligero – resta il massimo compito della critica filologica.

il manifesto 1 settembre 2011

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