14.1.13

La democrazia sterilizzata. Il nuovo totalitarismo capitalistico (Slavoj Žižek)

La rivista “Alfabeta2” di novembre 2010 pubblicò una intervista di Antonio Gnoli a Slavoj Žižek, parzialmente ripresa da “la Repubblica” di martedì 16 novembre. Il Cavaliere era ancora in sella, tant’è che a lui e all’anomalia da lui rappresentata era dedicata un’intera sezione della rivista, ma nella riflessione di Slavoj Žižek, osservatore della contemporaneità molto apprezzato, c’erano cose che a me sembrano assai più importanti ora che il Cavaliere è stato appiedato e difficilmente tornerà a cavalcare. Riprendo qualche passaggio significativo dalla parte iniziale. (S.L.L.)
Lee Kuan Yew
…Žižek non si considera un esperto di Berlusconi e soprattutto – tiene a precisare – pensa che per molti versi il problema non sia lui, ma che lo stesso Berlusconi sia l’effetto di un processo più generale che non coinvolge solamente l’Italia. Il discorso, dunque, non può che cominciare dall’intreccio tra due figure cardine della modernità: politica ed economia.

Lei sostiene che sia stata recisa ogni connessione fra democrazia e capitalismo. Com’è accaduto? E cosa sostituisce oggi quel legame?
Sì, nella mia interpretazione questo accade soprattutto in Cina, anche se non solo lì. Qualche tempo fa il mio amico Peter Sloterdijk mi confessò che dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, la sua risposta sarebbe Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore. È stato lui a inventare quella pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare «capitalismo asiatico»: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro ma che può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia. Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le riforme e si convinse che quel modello andava applicato alla Cina.

La Cina, insomma, è il sorprendente laboratorio nel quale si progetta il nostro futuro?
Diciamo che ci sono alcuni elementi che vanno in quella direzione. Se un nuovo modello si afferma e condiziona mondi culturalmente lontani, non si può non valutarne la forza di penetrazione. Sia Sloterdijk che io pensiamo che la scissione tra democrazia e capitalismo si stia lentamente espandendo. Se ne osservano elementi in Russia e, sebbene sarebbe chiaramente folle sostenere che l’Italia sia già uscita dalla democrazia, vedo anche qui tendenze non tanto alla sua sospensione formale, quanto alla sua neutralizzazione: si tende a rendere la democrazia irrilevante. Il punto è fare in modo che la gente accetti che i meccanismi democratici non siano davvero importanti, che esprimano un rituale completamente vuoto.
Del resto vedo aspetti di questo processo anche negli Usa. Quando esplose la crisi finanziaria, fu messo in discussione il primo grande intervento pubblico da, mi sembra, 700 miliardi di dollari. Alla prima votazione – Bush era ancora Presidente – il Congresso votò contro con due terzi dei suffragi. Cosa accadde? L’élite politica di entrambe le parti – Bush, Obama, McCain eccetera – si rivolse al Congresso più o meno con questi toni: «Ascoltate, non abbiamo tempo per questi giochetti democratici, questa roba bisogna approvarla e basta»; una settimana dopo, il Congresso rivotò ribaltando totalmente la sua precedente decisione. Non è dunque questione di individui pazzi o autoritari: no, c’è qualcosa nel capitalismo contemporaneo che spinge in questa direzione.

Si può dire che, rispetto al passato, la situazione si sia enormemente complicata. La famosa «globalizzazione» ha dilatato problemi che tradizionalmente trovavano una soluzione
nell’ambito degli Stati-Nazione. Oggi non è più così. Con quali effetti per la democrazia?
Credo che i meccanismi democratici non siano più sufficienti ad affrontare il tipo di conflitti che si prospettano all’orizzonte (sull’ecologia, le grandi migrazioni, le rivolte locali, ma anche altri relativi al funzionamento intrinseco del capitalismo: dalla proprietà intellettuale alla crisi finanziaria). Sembrano richiedere un «governo di esperti» molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare, e lo metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi. Ma è un esito molto triste: se finora, nonostante tutto, c’era un buon argomento a favore del capitalismo, ovvero che prima o poi, magari dopo qualche decennio di dittatura come in Sud Corea o in Cile, l’avvento del capitalismo avanzato avrebbe poi implicato la democrazia – ecco, tutto questo non accade più. Ed è un fenomeno davvero nuovo, un’epoca nuova, direi. Ma il punto, si badi bene, non è criticare la democrazia in sé; bisogna comprendere come la democrazia si stia autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico.

Il che ci porta all’oggetto del nostro incontro. A quale genere di democrazia ha dato dunque vita Berlusconi?
Mi sento di ribadire che forse voi italiani vi concentrate troppo su Berlusconi come causa dei mali che vi affliggono. In realtà bisogna vederlo come effetto. Non dimentichiamo le circostanze in cui è «sceso in campo»: lo scandalo di Mani pulite e il vuoto di potere che si creò con la scomparsa di un’intera élite politica. Certo, fin dall’inizio il suo progetto ha presentato elementi originali: Berlusconi ha davvero inventato qualcosa. Quel che ha introdotto è, formalmente, ancora una democrazia ma che, come tutti sappiamo – questo punto è stato trattato fino allo noia –, funziona in modo diverso: è, voglio dire, una democrazia ipermediatizzata, soggetta allo spettacolo pubblico. Ma c’è un secondo aspetto, per me molto importante, su cui vale la pena richiamare l’attenzione: la scissione del processo politico in sé – il processo di governare un paese, il decision making – dallo spettacolo mediatico, dalla dimensione dello scandalo pubblico, con tutte le sue conseguenze.

Lei allude agli scandali sessuali che hanno pesato sulla figura del premier?
Sì. Ma occorre capire perché quando c’è uno scandalo sessuale, tutti si occupano di quello, ma in maniera completamente dissociata da ciò che veramente accade. Berlusconi – non dovremmo dimenticarlo – non è solo un clown: ci sono cose che accadono davvero, decisioni politiche gravi che vengono realmente prese. Questo gap caratterizza la politica oggi.

Questa «dissociazione» impedirebbe di cogliere l’effettiva strategia del potere berlusconiano?
È come se mi concentrassi sull’albero, perdendo di vista la foresta. Un potere è sempre un risultato complesso. Si pensi a un altro aspetto originale di Berlusconi. È riuscito a marginalizzare la sinistra, e a stabilire una nuova polarità politica fra quello che potremmo definire un orientamento liberale neutro e tecnocratico e una reazione populista. Questo è perfettamente chiaro in Polonia: l’attuale premier Donald Tusk è un puro tecnocrate liberal e i due gemelli Kaczyn´ski (almeno fino a quando l’incidente aereo non ha sciolto definitivamente questa coppia), – sorta di Tweedledee e Tweedledum, i due matti di Alice nel paese delle meraviglie, saliti al potere – populisti al massimo grado. Berlusconi fa qualcosa di più: riunisce le due polarità. È certamente un tecnocrate brutale, efficientista, ma allo stesso tempo presenta chiari elementi populisti… Ci si può chiedere a questo punto se ci sia davvero, nell’attuale sistema, una grande alternativa a Berlusconi. Può la politica liberista offrire di più che un «Berlusconi dal volto umano»? Io credo di no.

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