“Alias”, il magazine del “manifesto”, nella estate del 2011 dedicò grande spazio a La voce di Rosa, un documentario di Nino Correale presentato al Taormina film festival e dedicato a Rosa Balistreri. Corredata da una succosa recensione di Cristina Piccino, nelle sue pagine trovò posto anche una intervista al regista, di Maria Grosso. Qui riprendo l’articolo di Piccino, l’introduzione di Grosso alla conversazione con Correale e (senza domande) alcune delle risposte di costui. (S.L.L.)
Un ritratto “impuro”
(Cristina Piccino)
Nello Correale è napoletano, vive a Roma ma ha vissuto per molto tempo anche in Sicilia, un paesaggio dell’anima al quale è rimasto profondamente legato.
Nonostante la difficoltà che si hanno lavorando nella cultura in questa regione, comuni a tutta l’Italia ma qui più evidenti nelle contraddizioni e nella fatica. Correale cura un festival a Marzamemi, dedicato alle immagini sul confine, un’idea che percorre tutte le sue scelte artistiche, ed è anche responsabile del coordinamento dei festival cinematografici siciliani. La Sicilia ritorna nel suo ultimo film, presentato in chiusura al Taormina film festival, La voce di Rosa. Un documentario «impuro», nel senso che non siamo davanti al semplice ritratto di Rosa Balistreri, la cantatrice di Licata che chiamavano l’Amalia Rodriguez di Sicilia. Almeno per come si intende «ritratto» nel cinema italiano, un’alternanza lineare di repertorio e testimonianze ecc. Si parla di Rosa, certo, e di quella voce che sfidava a ogni nota e a ogni parola i potenti, cantando la Sicilia, i suoi sfruttati e i suoi migranti, l’oppressione e la violenza della vita quotidiana Rosa e la sua passione, una forza che sembrava inarrestabile.
«... La voce di Rosa, il suo canto strozzato, drammatico, angosciato, pareva uscisse dalla terra arsa di Sicilia», le parole di Ignazio Buttitta, il poeta che lavorò con Rosa e le fu amico aprono il film di Correale. Alle interviste più «classiche» - tra gli altri con Dario Fo, Carmen Consoli, Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, Alfio Antico - si uniscono i ricordi di chi l’ha conosciuta, fotografie, materiali d’archivio, le parole della stessa Rosa, le sue apparizioni in televisione, e naturalmente le canzoni. Intanto in un teatro Donatella Finocchiaro sta provando uno spettacolo teatrale dedicato a Rosa Balistreri e alla sua musica... I momenti teatrali punteggiano così il «repertorio», e lo trasformano in vissuto e la voce di Donatella Finocchiaro (che canta magnificamente) si mescola alle immagini.
Eccola Rosa bambina, che patisce la fame e la miseria, e ragazza che si trova sposata a forza a un uomo che non ama e che non vuole, un’esistenza sofferta di violenza e di sopraffazioni a cui lei risponde e resiste col suo canto potente, che da racconto personale diviene storia di tutta la sua terra.
Rosa è amica di artisti e di intellettuali, Leonardo Sciascia, Guttuso, Pasolini, la voce è la sua arma e quella di chi come lei viene schiacciato dalla società.
Correale nella sua regia cerca costantemente questa relazione, il dialogo tra la sfera intima e collettiva, che è anche, appunto, la necessità dell’arte. Rosa Balistreri così come ce la racconta il film diviene memoria di un passato mai finito, è un pezzo di un paese, il nostro, che in Sicilia mostra al massimo i suoi conflitti. La voce di Rosa ci parla di battaglie che accomunano un popolo e che ancora oggi sono attuali. E il confine su cui vive la sua musica, tragico e pieno di dolcezza, continua a essere nel nostro tempo.
Nun è lu scantu ca ferma lu caminu
(Maria Grosso)
«Capirete Rosa Balistreri quando sarò morta, quando sarò viva mai. Perché protesto, ho ragione di protestare e chi mi capisce capirà». Se comprenderla interamente è impossibile, era lei stessa a dirlo, se tradurre i suoi pezzi dal dialetto siciliano si può, ma c’è qualcosa che irrimediabilmente sfugge, allora non resta che cercarla tra le note irraccontabili del suo canto, fosse il primo o il millesimo ascolto.
Altra possibile via è seguire le tracce di Rosa Balistreri, «cuntastorie e cantastorie» siciliana, come si autodefiniva, per le strade della canzone popolare, espressione della storia della sua terra e non solo (fu lei stessa a consegnare alla biblioteca di Licata, il paese in provincia di Agrigento dove era nata nel 1927, i materiali frutto delle sue ricerche di una vita, perché fossero patrimonio delle generazioni a venire). E poi c’è il suo tracciato esistenziale, come corpo inseparabile dal canto, miniera di esperienza, drammi nel dramma come matrioske e montagne russe di vissuti di confine. L’infanzia scalza e poverissima, lavorando con il padre che aggiustava sedie, le violenze di lui verso la madre, mentre a lei diceva: «zitta, perché le buttane cantano», poi quelle del marito anche mentre era incinta, fino a quando non tenta l’uxoricidio e si costituisce (dal vissuto in prigione germina Noi siamo nell’inferno carcerati ispirato a testi dell’800, come più avanti attingerà a quelli della Resistenza e a un afflato di protesta universale). Quindi la fuga: Firenze, mille lavori e le molestie del prete presso cui lavora come sacrestana, l’assassinio della sorella da parte del cognato, fino a quando assistendo a un recital di Buttitta, sente che quella è la sua via, che vuole cantare al mondo, a cominciare dalla storia di sua sorella. Per tutti questi sentieri si è mosso Nello Correale, autore del documentario La voce di Rosa, in anteprima all’ultimo Taormina Film Festival.
Pensava già dovesse esserci un lavoro dedicato a Balistreri, poi ha scelto di aprire lui quella «finestra», perché altri continuino a cercare. La sua una scelta insofferente a stereotipi e giudizi, tra materiali di per sé splendidi, testimonianze video di Rosa e un suo racconto audio, raccolto da Giuseppe Cantavenere per una biografia progettata poco prima che morisse nel 90. E poi il passato, Sicilia anni 50, essere donna e andare oltre la sopravvivenza, il legame tra i gesti del lavoro e il canto popolare – lo studia Dario Fo che la vuole per Ci ragiono e canto (ma sarà vicina anche a Buttitta, Guttuso, Sciascia e a quanti si arrovellano sui nodi della Sicilia).
Quindi il presente di Licata oggi, insieme a un concerto tributo svoltosi a Catania nel 2008: tante voci intorno a Rosa, tra cui Carmen Consoli (che tanto l’ha rivissuta col suo canto), Giorgia, Rita Botto, Marina Rei, e per lei quel fiore rosso che chiedeva alla sua morte. Il tutto attraverso un filo di metacinema al confine col teatro, orchestrato con intelligenza e rispetto. Come chiede la voce di Rosa. Voce di donna che grida nel deserto. Voce che culla che nutre che consola. Voce che raschia, che attraversa pietra. Il canto era il suo pane e cantava per se stessa. Canti di protesta? N’aiu a milioni, diceva. Nun è lu scantu ca ferma lu caminu.
La presenza, la rivolta, il brillìo quasi infantile
(Nino Correale)
La vita di Rosa Balistreri, con le sue ferite e il suo travaglio gigantesco, è come costellata di punti di azione violenta e crudele in senso artaudiano, di ineludibile attraversamento di confini, penso, tra gli altri, al momento in cui pugnala il marito.
Lei non si controlla, non perché sia borderline, ma perché si nutre alla sorgente di ciò che ha vissuto, sentito e respirato con la sua stessa pelle: nella vita ha problemi non da poco e affronta momenti che le lasciano un segno profondo. È come una di quelle piante grasse in certe zone arse della Sicilia: piccole, le foglie sparute, a distanza si nascondono dietro le dune e quasi non le vedi, ma se provi a staccarle, ti accorgi che hanno radici profondissime, coriacee, invincibili. Quando parlo di mancanza di autocontrollo, intendo questa presenza assoluta nel mondo. Rosa è radice e tronco.
Come dice Giovanna Marini, Rosa non è una a cui bisogna «aggiustare» le note. Lei è così e basta. Selvatica. A Palermo ho proposto che la sua voce sia considerata patrimonio dell’Unesco. In questo senso il film vuole aprire una strada perché altri continuino ad abitare la memoria di Rosa Balistreri... Per lei vale ciò che disse Moravia ai funerali di Pasolini, di poeti ne nascono pochi in un secolo. Lucilla Galeazzi la chiama «Billie Holiday siciliana». Anch’io credo che intimamente sia una cantante blues, uno di quei casi in cui biografia e opera sono inseparabili. Chi conosce la vita di Billie Holiday sa che è stata per così dire «distratta» dalla felicità.
Rosa Balistreri ha avuto un’esistenza di questo tipo, e insieme il temperamento e l’incazzatura di una Nina Simone. Per questo con lei il confine della musica popolare salta e si espande a un piano universale. Come si spiegherebbe altrimenti che malgrado sia morta nel 90, rarissimamente ascoltabile in tv o attraverso i dischi, ancora oggi ragazzi da varie parti del mondo la cercano e vogliono conoscere la traduzione dei testi delle sue canzoni?
Nella lettura dei suoi contemporanei Balistreri era sempre incazzata. In quell’epoca di musica molto colorata le sue canzoni erano considerate cupe e lei una sorta di gitana inquietante. Invece Rosa aveva una giocosità forte, un senso ironico della vita debordante, un brillìo quasi infantile, come si diceva. A Palermo insieme a Guttuso faceva feste con grandi cantate e mangiate. È questo spirito complesso, questa energia multiforme che arriva oggi fino ai giovanissimi che fanno ska. Allora vuol dire che attraverso la musica si è creato un varco.
Rosa si ribella. Prima al padre, poi al marito, poi al prete che è un altro padre, quindi alla Chiesa. Rompe con il potere maschile in tutte le sue forme… Rosa, indossando una tonaca, cantava «Mafia e parrini (preti) si déttiru la mano»... Il suo è un pezzo con una forte valenza sociologica. Oggi sarebbe la prima a cui metterebbero il bavaglio.
Indagando su Rosa, chiedendo alla gente di lei, ho raccolto un materiale di 30 ore. Domandavo chi sono oggi i pirati a Palermo? pensando alla famosa poesia di Buttitta musicata e cantata da Rosa. Ho avuto molte risposte. La mafia, gli accaparratori dell’acqua... Uno mi ha detto che i pirati sono i lati bui che ciascuno si porta dietro al mattino, che evita di guardare per tutto il giorno e che la sera si ritrova accanto. Si può essere schiavi di un territorio che sprizza felicità da tutti i pori.
Il tema del buio ricorre paradossalmente in un luogo così avvolto dal sole come la Sicilia. I siciliani (e io mi devo ricordare di non essere nato lì), che non vogliono guardare la realtà, stanno «o scuru»…
Per cercare di comprendere certe donne, noi uomini dobbiamo essere coraggiosi, passare certe soglie. Se una ninna nanna è il canto di protesta di una madre che chiede per il figlio un mondo migliore, di certo è diversa se la canta una donna borghese che si alza alle nove e che ha chi l’aiuta, o una donna che ha lavorato fino alle dieci di sera e che deve alzarsi alle quattro. Rosa prendeva quella tradizione, quella metrica e le faceva sue in modo indescrivibile. La sua ninna nanna ha radici testarde, ramificate e anche più oscure.
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