I sessant'anni che ci separano dalla fine dell'ultima guerra mondiale sono evidentemente una distanza di tempo sufficientemente lunga perché, smaltiti i coinvolgimenti personali, affettivi o ideologici, si cominci a guardare a quello sconvolgimento di un'epoca dal punto di vista degli stili di vita, delle inusitate forme di adattamento abitativo che esso stimolò in quanti, pur non trovandosi in prima linea, dovettero sopportare quella catastrofe da semplici civili, all'interno delle città.
Mi veniva da pensarlo mentre mi aggiravo per i sotterranei dedalei del Ministero del Tesoro britannico, dove si trovano le Cabinet War Rooms recentemente restaurate e da pochi giorni aperte al pubblico. Si tratta delle stanze segrete nelle quali Churchill organizzò il suo quartier generale quando Londra fu sotto gli attacchi aerei dei nazisti: insieme appartamento privato e ministero, per lui e per il suo staff. Era un rifugio era dotato di tutti i confort, anche privati: saletta da pranzo minimalisticamente arredata ma elegante; cucina simile a quella di un vagone ristorante; stanze da letto separate per lui - con l'immancabile mozzicone di sigaro sul comodino - e la moglie Clementina detta Clemmie; cubicoli-dormitorio per funzionari, ufficiali e detective del gabinetto di guerra.
Al sicuro dentro questo ipogeo, quell'uomo ormai più che sessantacinquenne - che però una volta, apprendiamo, non resistette alla tentazione di scapparsene sul tetto per vedere Londra sotto il blitz - diresse la battaglia contro Hitler. Ovviamente assieme al presidente Roosevelt, con il quale parlava per mezzo del «telefono transatlantico», congegno supertecnologico che occupa un intero stanzino, difeso come un sancta sanctorum. Perché la cittadella bunker churchilliana era attrezzata con tutti gli strumenti di comunicazione più moderni, che oggi appaiono preistorici, e ospitava al proprio interno uffici, segreterie, sale di riunione, e naturalmente una map room, dove di ora in ora si segnavano con gli spilli perdite e avanzate. Grande era la passione personale dello statista per le carte geografiche. Oggi quello che fa più impressione è l'aspetto artigianale di questo laboratorio bellico. Sembra impossibile, ma in quelle piccole stanze, da quei telefoni di bachelite, su quelle macchine da scrivere manuali delle quali sentiamo il rumore riprodotto in filodiffusione, e alle quali stanno ancora sedute le dattilografe - ovvero i loro manichini, in abiti rigorosamente vintage - non si giocava alla guerra. Si faceva la guerra, la seconda guerra mondiale.
A riprova della «verità» di quella guerra, ci viene ora mostrato, assieme ai telefoni e alle macchine da scrivere, anche del materiale «civile»: mobili, suppellettili, fin i vasi da notte e le valigie di fibra sotto ai letti. Tutti oggetti d'epoca che se non sono «proprio quelli» - solo gli effetti personali di Churchill sono autentici, ci dicono - sono comunque filologicamente corretti: raccolti cioè ai mercatini delle pulci dove anche noi possiamo ancora trovarli.
E qui, per i visitatori, si sommano un perturbante effetto di distanza e di vicinanza assieme. Così che quelle giornate scandite tra allarmi, code, paure, distruzioni, ferite e morte, diventano una specie di film sulla guerra come ne abbiamo visti tanti, solo che in questo ci siamo dentro. E gli oggetti in esposizione - fotografie, lettere, manifesti - ci appaiono come le reliquie di un'epoca tanto remota quanto vicina e «toccante», nella quale i razionamenti sul cibo, sul carbone, sui tessuti furono l'occasione per un fantasioso bricolage di usi e costumi, del quale abbiamo sentito parlare dai nostri genitori, o forse dai nostri nonni.
Come gli indiani Bororo studiati da Lévi-Strauss, che probabilmente erano i relitti di culture decadute, anche quei nostri parenti erano momentaneamente regrediti alla fase in cui si raccolgono i frutti spontanei della terra, senza semina né coltivazione; ma la loro la raccolta era avvenuta non nella foresta bensì sulle strade di Londra «grande e imperiale città», come shakespeareggiando la chiama Churchill in uno dei suoi discorsi. Che ciascuno si costruisca la propria personale storia della guerra, e faccia del passato una cosa da comprendere attraverso il proprio presente: era questo il sottotesto nelle War Rooms, e noi visitatori ci lasciamo andare senza paura allo slittamento cognitivo con il quale si apprende la storia oggi: dietro il presente, niente che non sia già antropologia. O sociologia. Se l'avessimo studiata così la storia, a scuola, certo l'avremmo amata di più.
Dalle War Rooms si passa poi direttamente all'adiacente Churchill Museum, anch'esso mescolanza di guerra guerreggiata e vita quotidiana. L'ha inaugurato la regina, che certo era solo una principessina quando Churchill compiva tutte le gesta per cui ora diventa un personaggio del folklore popolare; ma sicuramente avrà ancora viva in mente l'immagine autentica di lui com'era allora, e ne sentirà la voce dentro di sé.
Al Museo l'effetto nostalgia è sapientemente mescolato con un grande display di tecnologia comunicativa, popolare ma d'effetto. C'è il celebre siren suit di velluto rosso - una specie di pigiama che lo statista indossava quando le sirene suonavano di notte e bisognava mettersi al riparo in fretta - ma ci sono anche congegni che dall'alto ti schizzano sulla testa brani dai suoi discorsi non appena, senza accorgertene, metti i piedi sopra gli appositi sensori. E poi schermi interattivi di tutti i tipi, attraverso i quali intrecciare a piacimento le immagini private con quelle ufficiali, secondo il solito principio che ciascuno deve essere libero di riscriversi la «sua» storia, sia pure dentro il binario dei documenti offertigli. E poi ancora mappe di guerra, ma questa volta digitalizzate, e una grande tavola cronologica in orizzontale, come fosse il piano di un tavolino, che invece è lo schermo gigantesco di un computer, e a toccarla si apre in un ventaglio particolareggiato di eventi minuti.
Sparsi in vari punti della sala, ancora altri computer permettono di giocare con le taglienti frasi celebri del grand'uomo, il quale, si dice, più d'una volta apostrofò lo chef di sala del ristorante in cui si era recato con le parole: «Per favore, porti via questo pudding. È privo di tema».
il manifesto 6 maggio 2005
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