31.1.13

Nel mondo di Paolo Poli (di Andrea Porcheddu)

La recensione che segue, di un libro-intervista a Paolo Poli e a Lele Luzzati, suo scenografo, opera di Marina Romiti, è ripresa da “Pubblico”, un’esperienza giornalistica promettente soffocata sul nascere. E' - oltre che seducente incoraggiamento alla lettura del volume - omaggio riverente a un attore-intellettuale che lo merita. (S.L.L.) 

Qualcuno l'avrà visto, in tv, ospite di Fabio Fazio: sempre elegante, sorridente, Paolo Poli è un'icona del teatro italiano. “Primattrice ”(ha sempre parlato di sé al femminile), Poli è artefice di un teatro libero, e libertino.
Chissà che direbbe quel prete-crociato, che s'è scagliato ottuso contro le donne, di uno spettacolo di Poli: perché in ogni suo lavoro il femminile è protagonista indiscusso.
Sciantose o educande, monache (di Monza) o brillanti giornaliste, virago o donzellette: dalla fine degli anni Cinquanta, Poli le ha interpretate tutte. Sempre sul filo dello scandalo, dell’indecenza, del sottile (ma neanche troppo) doppio senso, Paolo Poli ha sempre giocato con il travestimento. E di tutto questo mondo, Poli racconta in un bel volume, da poco in libreria. Stiamo parlando di Paolo Poli e Lele Luzzati: Il novecento è il nostro secolo, scritto con mano felice da Marina Romiti e edito da “Maschietto Editore ” di Firenze.
Per chi non lo sapesse, Poli ha lavorato a lungo proprio con Lele Luzzati, giocoso pittore e scenografo, in un sodalizio artistico tra i più felici d'Italia. Il libro, però, non è tanto una “storia del teatro”, fatta di ricordi e aneddoti (o di pettegolezzi e frecciatine all’indirizzo di tutti). È, piuttosto, una soggettiva storia dell’arte italiana raccontata da uno dei più colti intellettuali del secolo passato. Poli è allievo di Roberto Longhi, insigne critico e studioso d’arte: così, da una pagina all'altra, si passa dal Seicento lombardo a De Chirico, da Masaccio a Cellini, da Picasso a Mattia Preti.
Natalia Aspesi, nell’introduzione, afferma che il libro «riesce a rivelare tanto di più di quello che sul palcoscenico e in molte altre interviste ci è stato raccontato: una cultura artistica profondissima, un sapere straordinario, una vita fatta di orgoglio, e sincerità, di passione e rettitudine, di solitudine e ombra, ma anche di profonda, taciuta malinconia. Una vita ricchissima, che è il racconto più nostalgico e raffinato del Novecento».
Il flusso della conversazione scorre, sul filo del ricordo, chiamando in causa Mussolini o Maupassant, la legge Merlin e sant’Agostino, Jarry e Schoenberg, Brigitte Bardot e Carmelo Bene. È una festa del gusto, dell’intelligenza, dell ’arguzia: proprio come gli spettacoli di Poli. Grandi affreschi capaci di tessere assieme l’alto e il basso, il comico e il poetico, il classico e il popolarissimo: ma – ricorda Aspesi - «il suo talento è sempre stato quello di diventare nei suoi spettacoli una signora (santa Rita, Caterina de’Medici, Carolina Invernizio, la Vispa Teresa, la Nemica) senza mai sembrare un travestito: ma regalandoci la sublimazione della donna, se necessario molto bella, e talvolta, solo quando indispensabile al personaggio, un po’ grottesca » .
E alla felicità di questi spettacoli “all’antica”, fatti coi bei costumi, le quinte dipinte, con i “boys” che cantano e ballano, ha contribuito certo l’estro appartato di Lele Luzzati: un legame professionale raccontato con dovizia di particolari, ma che l’attore suggella così: «Io gli davo le indicazioni, lui faceva come gli pareva».
I due hanno attraversato mondi diversi, restando fedeli a se stessi: Gozzano, Savinio, Apuleio, Swift, Dumas, Satie, Palazzeschi, Diderot, Wilder, Ortese e altri. Fino a Pascoli, il retrivo Pascoli, con Aquiloni, che Paolo Poli sta portando in tournée quest’anno. Ed è brava Marina Romiti a tenere le redini di questa articolata intervista: Poli svicola, si sottrae alle domande, procede per associazioni azzardate, spiazzanti, divertenti.
Consentitemi un ricordo: anni fa, al Teatro Due di Parma, dovevo condurre un incontro con il pubblico in occasione dello spettacolo di Poli. Lui mi convocò, un’oretta prima dell’orario stabilito, per chiacchierare, per conoscerci, mostrandosi – giustamente – diffidente nei confronti di uno sconosciuto giornalista. Di tanto in tanto faceva domande apparentemente svagate, ma insidiose: «Come si chiama quel pittore che faceva tutte quelle bottigline?» e io, timido: «Morandi».
E lui: «ah già…» come se l'avesse ricordato grazie a me, e dopo poco: «o come si chiamava quell’altro, che faceva le mucche maremmane?» e io, diligente: «Fattori». Risposi bene su Rosai, ero impreparato su De Pisis, ma ho retto su Rosso Fiorentino e Savinio. Solo a quel punto, passato l’esame (anche se non a pieni voti), Poli mi ha “accettato ” come intervistatore.
E con molto piacere, allora, ho ritrovato quella malizia anche nelle belle pagine di questo libro: che rende merito non solo agli artisti, ma anche, e soprattutto, a due intellettuali che hanno contribuito a rendere più bella, e più divertente, questa italietta.

“Pubblico”, 30 dicembre 2012
 

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