8.1.13

“Una vita al servizio del futuro socialista”. Edoarda Masi su Paul Sweezy

Paul Sweezy a Cuba nel 1985
Non sono un’economista, e non posso entrare nel merito degli scritti di carattere teorico di Paul Sweezy. Posso dire però – da lettrice da quarant’anni della “Monthly Review” – che il contributo dato da Sweezy e dai suoi collaboratori alla diffusione di un pensiero marxista indipendente è quasi unico al mondo. Ed è soprattutto straordinaria, anche negli scritti teorici e in particolare nella gestione della rivista, la sua capacità di rendere in un linguaggio comprensibile ai non addetti ai lavori anche concetti e teorizzazioni non sempre semplici. È una dote che in generale va riconosciuta a molti autori inglesi e americani, ma che raggiunge un livello eccezionale nel gruppo dei redattori e collaboratori della “Monthly Review”.
Ho conosciuto Sweezy (ma solo occasionalmente, quando venne in Italia nei primi anni Sessanta) tramite Raniero Panzieri (allora collaboravo ai “Quaderni Rossi”). Era non comune la sua attenzione a tutti i problemi mondiali: quando gli dissero che mi occupavo della Cina, subito mi propose la lettura di un libro che considero fondamentale, Ideology and Organization in Communist
China di Franz Schurman: uno dei più bei libri di carattere sociologico sulla Cina contemporanea. Mi consigliò il meglio, in quel momento, sulla situazione della Cina. Franz Schurman era impegnato a quel tempo contro la guerra Usa in Vietnam ed era certo simpatizzante verso la Rivoluzione Cinese, ma di mente libera e lontanissimo da rapporti, fossero pure teorici, con qualunque burocrazia al potere in qualunque paese.
Il contributo fornito da Sweezy dopo la sua adesione al marxismo è quello di un’interpretazione appunto marxista degli eventi, assolutamente libera e indipendente da ogni omaggio al potere, capitalista o socialista che sia. Riccardo Bellofiore ricordava l’espressione “società post-rivoluzionaria”: è un’espressione coniata nell’area della “Monthly Review”. Nella discussione sul carattere socialista o meno delle società uscite dalle rivoluzioni del XX secolo, questa espressione escludeva che non si trattasse di un fenomeno nuovo, post-capitalista, ma nello stesso tempo non lo riconosceva come socialismo realizzato.
In modo eccellente Sweezy e la rivista seguirono gli eventi della rivoluzione cinese e quelli successivi alla morte di Mao Zedong, fino ai nostri giorni. Hanno infatti pubblicato i testi e le fonti più interessanti. Così, al tempo della Rivoluzione Culturale, Hundred days war; the cultural revolution at Tsinghua University di William Hinton in un numero speciale della “Monthly Review” e, successivamente, in un volume indipendente. Si tratta di una delle prime e più importanti documentazioni autentiche sulla lotta degli studenti contro il potere burocratico e fra le varie fazioni degli studenti, in un periodo cruciale della storia cinese contemporanea...
Un altro esempio: il libro Red Cat, White Cat di Robert Weil. Il titolo si riferisce a una famosa frase di Deng Xiaoping, polemica nei confronti di Mao Zedong: “non importa se un gatto è rosso o è bianco, l’importante è che prenda i topi”. Weil si schiera contro questa tesi, che giustifica una vera e propria involuzione, e contro la stessa tesi si schiera anche William Hinton, che in merito pubblica diversi saggi di grande interesse (sempre sulla “Monthly Review”). Sono saggi scritti nel corso di diversi anni: Hinton, che collabora con il governo cinese nel campo dell’agricoltura, da un’iniziale quasi simpatia per le riforme varate dopo la morte di Mao a partire dal 1978, gradualmente si rende conto del progressivo degrado nella Cina rurale.
Ho accennato a questi temi per mettere in luce non solo la capacità teorica di Sweezy, ma anche le sue doti di organizzatore della cultura, e per mettere in risalto come abbia saputo dare un indirizzo utile e puntuale sul problema dell’evoluzione – o non evoluzione – verso il socialismo. Vorrei ora leggere un testo di István Mészáros, nel quale si cita una lettera ricevuta da Paul Sweezy.
“Il lavoro di tutta la vita di Paul Sweezy parla di per sé. Ora io contribuirò solo col riferire i punti principali di una lettera ricevuta molti anni fa da Paul. Questa lettera commovente mostra con chiarezza che la sua penetrazione profonda delle tendenze complesse e spesso sconcertanti nello sviluppo della nostra società era inseparabile dall’impegno e dalla dedizione con cui applicava il suo principio fondamentale – la necessità di una trasformazione socialista globale e praticabile – alla valutazione degli eventi e delle situazioni mutevoli dei suoi giorni.
Scrisse questa lettera a mano, contrariamente al suo solito, il 21 ottobre 1987 in Jugoslavia (a Cavtat, un paesino nei dintorni di Dubrovnik), dove si tiene ogni anno una tavola rotonda, ‘Socialismo nel mondo’, con la presenza di due o trecento socialisti di ogni genere e varietà da ogni punto della bussola, Nord, Sud, Est, Ovest. Quanto si osserva qui conferma decisamente [...] che la crisi che stiamo attraversando non è una crisi del marxismo ma piuttosto una crisi del capitalismo e dei movimenti e partiti che in questa o in quella misura si oppongono al capitalismo”. Significativamente, in un tempo relativamente breve dopo la lettera di Paul da Cavtat, tutte quelle tavole rotonde “da ogni punto della bussola” sul “socialismo nel mondo” ebbero fine, come risultato della crisi fra “ogni genere e varietà” di quanti già si dichiaravano socialisti, come Paul acutamente percepiva già nella riunione del 1987 a Cavtat. La lettera proseguiva descrivendo il carattere della grande crisi storica del nostro tempo e la sfida che dobbiamo affrontare. Scriveva così: “Non è possibile una datazione precisa delle svolte storiche, ma credo non sia errato pensare che la crisi sia cominciata col collasso del 1929-1933. Al sistema capitalistico globale è stato accordato un prolungamento di vita dalla seconda guerra mondiale, che preparò la fase di un boom di un quarto di secolo sotto l’egemonia americana. Ma le forze basilari erano ancora in azione, e in forma più intensa, e sono venute alla superficie negli anni Settanta e Ottanta, quando cessò l’ondata di espansione bellica e postbellica. Ora il processo di accumulazione del capitale, che è ed è sempre stato la forza motrice fondamentale dello sviluppo capitalistico, si è bloccato in un profondo fosso di stagnazione dal quale potrebbe uscire solo con un’altra orgia di violenza e di distruzione paragonabile alla prima e alla seconda guerra mondiale – in altre parole con la terza guerra mondiale. Ma l’ironia – e ad un tempo la novità essenziale – della situazione presente è che la terza guerra mondiale, nel mettere in atto la sua funzione catartica e di ringiovanimento per il processo di accumulazione del capitale, porterebbe quasi certamente alla fine della società civile come l’abbiamo conosciuta nell’intero periodo della storia documentata. Questo non significa che la terza guerra mondiale sia impossibile, solo che si pone fuori dei confini del discorso razionale.
Quello che possiamo pensare ragionevolmente è un futuro senza terza guerra mondiale, quindi anche – e questo naturalmente è il punto cruciale – un futuro, per un periodo assai lungo, di una crisi capitalistica sempre più profonda e irreversibile”.
Naturalmente questa diagnosi della situazione – grave ma pienamente realistica – non significava per Paul la minima caduta nel come porsi di fronte a una sfida storica di proporzioni sconosciute all’umanità, giacché implica lo sterminio potenziale della specie umana. Né era praticabile, quanto a Paul Sweezy, adottare la posizione di molti che un tempo si erano chiamati socialisti dell’uno o dell’altro genere. Cioè, che il modo corretto di procedere sia di adattarsi alle presenti e sempre più distruttive coercizioni del capitale, anziché affrontarle. Infatti una simile strategia di “ragionevole” adattamento può solo moltiplicare i pericoli, portando al trionfo di una universale irrazionalità e infine al concomitante assoluto disastro.
Della nuova pesante sfida e la sua sola possibile soluzione Paul scriveva: “A mio giudizio si tratta di un problema per eccellenza marxista. E penso che abbia una soluzione marxista nella quintessenza: la rivoluzione ininterrotta [...]. Una grave sfortuna nella situazione presente mi sembra (e mi rafforza in questa opinione quel che qui osservo in questa assemblea di socialisti da tutto il mondo) è che assai pochi marxisti (se pure ve ne sono) vedono in questa luce il problema della sfida. I più fra loro pensano, o forse danno per scontato, che prima o poi il capitalismo verrà fuori da questa crisi, o spontaneamente o attraverso pressioni politiche riformiste, come è avvenuto per le crisi del passato. Nella misura in cui è così, è difficile se non impossibile discutere come affrontare questa enorme sfida teorica e pratica”.
I diciassette anni trascorsi da quando Paul scrisse questa lettera hanno confermato la sua diagnosi in ogni particolare, insieme con la validità della sua radicale passione socialista. Quasi due decenni non hanno saputo offrire assolutamente nulla come via d’uscita dalla crisi di accumulazione capitalistica, nonostante tutte le fantasie riformiste sulla “lunga onda di ripresa” che avrebbe dovuto seguire la “lunga onda negativa” come il giorno segue alla notte. Ci troviamo nel mezzo di una sempre più profonda e irreversibile crisi capitalistica, non solo di fronte alla prospettiva più o meno remota di un’altra orgia di violenza e distruzione ma già nell’esperienza delle sue devastazioni in diverse parti del mondo. Così il potente messaggio della lettera di Paul parla a tutti noi.
Sapevamo da qualche tempo che Paul era gravemente ammalato. Ma anche così, quando è arrivata la notizia della sua morte è stato un colpo duro da sopportare, e una profonda tristezza. Eppure la tristezza deve far luogo a un diverso sentimento. Giacché l’esempio di Paul ci ispira e ci invita a celebrare con gioia una vita veramente compiuta: una vita dedicata fino alla fine al servizio del nostro futuro socialista.

Da “L’ospite ingrato”, rivista on-line del Centro Studi Franco Fortini.

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Postilla
Il testo è la trascrizione di un intervento a seminario di discussione sul pensiero di P.M. Sweezy (1910-2004), organizzato dall’Università degli Studi di Bergamo (Facoltà di Economia e commercio) e tenutosi a Bergamo il 21 aprile 2004, dopo la scomparsa del grande marxista statunitense, che tenne duro nel tempo del maccartismo, quando – secondo le sue parole – il marxismo americano sarebbe comodamente entrato in un solo taxi (all’epoca erano macchinoni che portavano anche 6 o 8 persone).
Più tardi, come testimonia la lettera citata da Edoarda Masi, anche dopo gli anni del “movimento” cioè nel lungo periodo del “grande freddo”, Sweezy non si rassegnò mai a quel marxismo teorico che in Usa facilmente diventa “marxismo accademico”, ma accompagnò sempre l’impegno di ricerca con la militanza antimperialista e anticapitalista, pagando il prezzo dell’emarginazione. Una emarginazione accentuata dopo quell’Ottantanove che vide la fine del primo esperimento di trasformazione socialista di una grande compagine sociale, il tradimento di molti intellettuali socialisti e comunisti, l’affermarsi del “pensiero unico”. (S.L.L.)

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