In occasione della “riabilitazione” di Bucharin da parte di Gorbaciov, nel 1988, Lucio Villari scrisse questa rievocazione del processo al marxista rivoluzionario che Lenin soleva definire “la pupilla degli occhi del partito”. Mi pare una pagina utile, nonostante alcune inevitabili semplificazioni giornalistiche. (S.L.L.)
Nikolai Bucharin |
Il processo contro Bucharin, Rykov (per molti anni capo del governo sovietico), alcuni ex commissari del popolo, diplomatici, medici, dirigenti periferici del partito bolscevico e perfino il segretario dello scrittore Maxim Gorki, si aprì a Mosca il 2 marzo 1938. Fu questo l' ultimo della serie dei processi, voluti da Stalin, che dal 1936 avevano dato parvenza legale allo sterminio di quasi tutti i dirigenti comunisti che avevano partecipato alla Rivoluzione d'ottobre e alla successiva fase della Nep.
Era dunque un processo conclusivo che avrebbe dovuto essere esemplare soprattutto perché, essendo sfuggito Trotzki alle grinfie della giustizia staliniana, Bucharin riassumeva simbolicamente, nella sua persona, tutto quello che non era il regime sovietico, cioè la negazione di ciò che era divenuta l'Unione Sovietica dal 1929 in poi con l'inizio dei piani quinquennali, delle collettivizzazioni forzate, dell'industrializzazione.
Esattamente nove anni prima, nell' aprile 1929, Stalin in un discorso al comitato centrale del partito aveva attaccato per quasi 150 pagine, frontalmente e brutalmente, Bucharin e gli altri deviazionisti di destra con in testa Rykov, irridendo anche al ruolo di teorico del marxismo che Bucharin aveva svolto collaborando con Lenin prima e dopo la rivoluzione. Si trattava ora di chiudere la partita scegliendo tra i modelli di crimine quelli che fossero, per così dire, all' altezza dell' importanza degli imputati. Ecco allora lo straordinario elenco di capi d'accusa che furono letti la mattina del 2 marzo nella sala Ottobre della Casa dei sindacati dal presidente del tribunale Ulrich. Bucharin e i suoi compagni di sventura erano riconosciuti colpevoli tra l'altro di: “Tradimento dei segreti di Stato e passaggio di informazioni ai servizi di spionaggio stranieri; scellerato assassinio di Kirov; sabotaggio, atti di diversione, esplosioni; scellerato assassinio di Menginski, Kuibyscev, Gorki”. Questi ed altri delitti, politici e comuni, erano avvenuti secondo l' accusa per incarico dei servizi di spionaggio borghesi dell' estero.
A questo proposito è interessante ricordare che il processo si celebrava alla presenza dei corrispondenti della stampa occidentale ai quali era stata concessa non solo una tribuna riservata nell'aula, ma anche una comoda sala stampa attigua per la trasmissione dei loro servizi. Anche giornali sovietici, ovviamente, seguirono il dibattimento. Ai cronisti e poi ai compilatori della Storia del Partito comunista dell'Urss spettò il compito di coniare per Bucharin e gli altri imputati epiteti come mostri, maledetto incrocio tra un maiale e una volpe, uno dei più vigliacchi gesuiti e dei più sleali farisei che la storia ricorda, miserabili lacché dei fascisti, pigmei controrivoluzionari, eccetera.
Come è noto anche in questo processo la tenebrosa macchina giudiziaria era costruita oltre che sulle accuse sulle confessioni degli imputati rese in istruttoria. Era questo che rendeva scontato il verdetto e per così dire tranquillo il dibattimento. Ma nei dieci giorni del processo qualcosa non funzionò. Il previsto rituale Il previsto rituale fu messo in crisi da alcuni imputati che negarono i delitti loro attribuiti suscitando stupore e irritazione nella corte soprattutto nel pubblico ministero Andrej Vysinkij. Ma lo sconcerto maggiore lo provocò proprio Bucharin che, dopo aver riconosciuto di essere colpevole, cominciò a smantellare il meccanismo giuridico, politico e teorico delle accuse. A un certo momento Vysinkij sbottò: “Vi coprite con un torrente di parole e ricorrete a cavilli spaziando nel campo della politica, della filosofia, della teoria, eccetera; questo dovete scordarvelo una volta per tutte perché siete accusato di spionaggio e secondo quanto risulta da tutti gli elementi raccolti nel corso delle indagini siete agente di un servizio spionistico. Smettetela dunque di cavillare”.
E il 9 marzo le Izvestija così commentavano l'autodifesa di Bucharin: “Si riconosce colpevole di tutto, ma poi respinge tutte le accuse specifiche”. Cinquant' anni dopo sono queste accuse specifiche a cadere come tragiche foglie di una storia che purtroppo appartiene anche a noi perché ricorda tante altre pagine di storia in cui ideologie ottuse, intolleranze religiose, grovigli di verità e di errori hanno reso ciechi e insensibili gli uomini. Ma il caso Bucharin è ancor più angoscioso perché ha per sfondo una serie di problemi storici di grande rilievo.
Anche sconfiggendo Bucharin Stalin poteva ad esempio sostenere la validità dei principi di uno Stato socialista fondato su un sistema economico e sociale che voleva essere razionale e giusto nel momento in cui la crisi mondiale del capitalismo pareva irreversibile.
Ma Stalin non aveva evidentemente valutato l'importanza storica di quegli elementi di libertà e di democrazia socialista che esistevano nelle teorie buchariniane che rendono quanto mai profetiche le parole con cui Bucharin si congedava da lui nella lettera scrittagli poche ore prima dell' esecuzione: “Koba, a che cosa ti serviva la mia morte?”.
"la Repubblica", 6 febbraio 1988
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