5.2.13

1942. Fuga da Auschwitz (di Lanfranco Caminiti)

“Alias” del 5 novembre 2011 dava notizia di un libro fresco di stampa, Fuga dal carcere, Le evasioni diventate storia, curato da Lanfranco Caminiti ed edito da Derive Approdi. Il libro racconta, sulla base di un materiale documentario attendibile ma con una scrittura romanzesca, le evasioni di Casanova, Cagliostro, Vallanzasca, Dillinger e molti altri. Il settimanale pubblicava, come anteprima, il racconto qui postato su una fuga da Auschwitz. E’ molto ben scritto e coinvolgente. (S.L.L.)

Nel giugno del 1942 Vrba era stato mandato a Auschwitz I.
Il suo primo lavoro fu aiutare a scavare fosse per i corpi che dovevano essere bruciati. Poi, passò a quello che nello slang del campo era nominato «Canada», una fila di baracche dove ogni oggetto di valore trovato addosso ai prigionieri veniva riconfezionato e spedito in Germania. Al «Canada» c’era anche cibo, vestiti, medicine, scarpe e coperte. Per i prigionieri, un paradiso.
L’altro, Wetzler, a Trnava c’era nato, nel 1918, ed era un operaio. Si conoscevano e si fidavano l’uno dell’altro.
«Sai di quelle assi che i polacchi stanno impilando per il nuovo campo che devono costruire?», chiese Fred. Rudolf annuì. Servivano per Birkenau Tre e sarebbe stato parallelo a Birkenau Due, per fare posto alla marea di ungheresi in arrivo. Lui aveva visto che stavano posando anche nuovi binari.
«Devono aver corrotto qualche kapò per impilarle in modo che rimanga una cavità all’interno».
All’improvviso, Vrba concepì il piano di fuga. Le tavole stavano nel campo esterno, e di notte erano completamente incustodite dato che tutti i prigionieri erano nell’area interna, al di qua del filo spinato ad alto voltaggio e delle torrette. Se ce l’avessero fatta a rimanere nascosti per tre giorni, mentre tutte le guardie erano mobilitate e il luogo era stato perquisito, potevano avere una possibilità. Alla fine dei tre giorni si poteva ragionevolmente pensare che ormai erano lontani da Auschwitz e la caccia ai fuggiaschi passava di mano. L’allarme nell’intero campo sarebbe stato ritirato e loro avrebbero solo dovuto aspettare la notte per scivolare via oltre le torrette esterne, che non erano piantonate.
Decisero di fuggire. Si accordarono. Era il momento.
Adesso, potevano vedere le cataste di legna e i polacchi sulla sommità, che sembravano lavorare. Nessuno disse una parola. I polacchi spostarono le assi e fecero loro un impercettibile segno. Per un attimo, Rudolf e Fred esitarono. Sapevano che una volta infilati là sotto, non potevano più tornare indietro. Insieme salirono velocemente sulla pila e scivolarono nello spazio. Le tavole vennero spostate sulla loro testa. I polacchi sparsero intorno del tabacco imbevuto di gasolio, per depistare i cani, un trucco che avevano imparato dai prigionieri di guerra russi.
I movimenti del campo – movimenti che intuivano entrambi – arrivavano debolmente nel loro buco,
come rumori alla deriva, e in qualche modo tutto sembrava lontano nel tempo. La sirena di allarme fece a pezzi i loro pensieri, disperdendoli, polverizzandoli, sbattendo via la paura, spazzando il loro buco pieno di depressione, spingendo la sfida dentro fin dentro il cuore e lo spirito. Scarponi si trascinavano sulle tavole sopra di loro, mandando loro addosso una piccola pioggia di sabbia. L’andirivieni degli uomini sollevava polvere e si coprirono il naso per non starnutire. Ancora scarponi e respiri affannosi di uomini. Poi, i cani, che sbuffavano, ansimavano, raschiavano le tavole con le loro zampe, scivolando e ricominciando. Rudolf aveva tirato fuori un coltello, e poteva vedere la faccia di Fred storpiata in un ghigno di una tensione fortissima. Poi i rumori si affievolirono. Lentamente, il silenzio riempì il loro nascondiglio, un silenzio che portava uno strano senso di sicurezza. Avevano vinto il primo round.
Il secondo giorno fu cruciale. La notte non aveva portato sollievo. Le guardie avevano continuato a fare su e giù per il campo e fu soltanto all’alba che la pressione sembrò allentarsi un po’. «Ancora un giorno e mezzo», disse Fred. «Non dovrebbe andarci male. Per allora, si saranno convinti che siamo miglia lontani da qui».
Alle due di quel pomeriggio, sentirono due tedeschi parlare vicino al loro nascondiglio. Uno diceva: «Non devono essere scappati. Saranno ancora nel campo». Per un po’ snocciolarono strane ipotesi su dove si potessero essere nascosti i fuggitivi, finché uno dei due disse: «Otto… che ne pensi delle cataste di legname? Pensi che potrebbero nascondersi sotto una di queste? Forse sono riusciti a farsi
un buco all’interno o qualcosa di simile». Li sentirono scalare la catasta di legna e impugnarono i coltelli. Quei due sollevarono un’asse e la sistemarono di lato, poi una seconda, una terza, un quarta. Solo una decina di centimetri separava adesso i due fuggiaschi dal nemico. Non respiravano neppure. Improvvisamente, ci fu uno schiamazzo dall’altro lato del campo. Dal nascondiglio si potevano sentire urla sovreccitate e un veloce accorrere di uomini. I due tedeschi sopra di loro rimasero in silenzio, senza muoversi. Quindi, Otto disse: «Li hanno presi, andiamo, presto». Scivolarono dalla catasta e si precipitarono per rispondere al falso allarme che aveva salvato la pelle ai due fuggitivi.
Le altre ventiquattro ore passarono abbastanza tranquille. La caccia continuava, ma c’era meno lena. Le ore scivolavano via e la loro tensione aumentava, aspettando il momento in cui si sarebbero mossi, quando il cordone esterno sarebbe stato tolto. Sbuffando, sudando, sforzandosi, usarono ogni grammo della loro forza. Lentamente, quasi impercettibilmente, cominciarono a sollevare le assi. Le spostavano lateralmente. Di colpo, poterono vedere le stelle sopra di loro, in un cielo nero, freddo, senza luna. Per la prima volta, Rudolf e Alfred guardavano Auschwitz dall’esterno, vedendolo come potevano vederlo le vittime che arrivavano. I fari dipingevano un alone giallo nell’oscurità, dando all’intera zona un’aura misteriosa, quasi fantastica. Loro, però, sapevano che si trattava di una orribile bellezza, che in quelle baracche la gente veniva uccisa, la gente moriva di fame, la gente era disposta a tutto per sopravvivere, e l’assassinio regnava sovrano su ogni angolo. Girarono le spalle al campo, scivolarono aderendo il più possibile al terreno e cominciarono a strisciare lentamente, muovendosi con estrema attenzione, allontanandosi poco a poco dalle torrette e addentrandosi nel bosco di betulle con i suoi vecchi pozzi di fuoco che avevano dato il nome al posto, Birkenau. Non osavano sollevarsi e continuavano a avanzare sulla pancia, aggrappandosi a ogni cavità, ogni avvallamento, ogni piccolo fosso che trovavano. In linea d’aria, il confine polacco era a circa 130 chilometri. Sfortunatamente loro erano ebrei e non uccelli, il che significava che dovevano camminare. E la strada che dovevano percorrere era in territorio pericoloso.
Mentre stavano sdraiati a occhi chiusi sul fianco di una collina, si sentì un colpo di fucile e un proiettile fischiò sopra le loro teste. In un istante furono in piedi. A una cinquantina di metri, su una collina di fronte la loro c’era una pattuglia tedesca con i loro cani. Si misero a correre, affondando nella neve. Se fossero riusciti a raggiungere la sommità e passare dall’altra parte, scomparendo alla vista, avrebbero avuto una possibilità. Dovevano coprire quella distanza sotto il tiro dei tedeschi.
Wetzler era davanti, e riuscì a raggiungere un largo masso e mettersi dietro. Vrba lo seguiva, inciampò, cadde. Il masso era a soli pochi metri da lui, ma era come se ci fosse stato un milione di chilometri in mezzo, perché i proiettili gli ronzavano intorno e andavano a scheggiare le pietre.
«Andiamo!», gridò Fred. «Verso gli alberi».
A metà della collina di fronte c’era un boschetto. E sul fondo della valle scorreva un piccolo impetuoso torrente. Si diressero verso quello, spinti dall’abbaiare dei cani. S’immersero nell’acqua gelida e lottarono per raggiungere la riva. Il morso del gelo gli entrò nel midollo. Il flusso dell’acqua trascinava i vestiti pesanti. Alla fine ce la fecero, tirandosi sul bordo ghiacciato e correndo verso gli alberi, con la neve che arrivava ai fianchi. Raggiunsero gli alberi prima che i tedeschi affrontassero la discesa e ora il vantaggio era dalla loro parte. I cani non sapevano come superare il torrente e il ritardo dava ancora vantaggio ai fuggitivi. Zigzagarono fra gli abeti finché non sentirono più il latrato dei cani e si lasciarono scivolare esausti in una fossa piena di arbusti e felci.
Dopo quei minuti di terrore, decisero di andare avanti il più velocemente possibile, certi che presto sarebbero stati fuori dal confine polacco. La libertà, comunque, non era tutto. Non era la prima ragione della loro fuga. Avrebbero dovuto entrare in contatto con i comitati ebrei con cui i tedeschi programmavano le deportazioni. Significava entrare in città senza documenti, trovare gli indirizzi giusti, rivelarsi. Probabilmente sarebbe stato più saggio restare nella foresta, raggiungere i partigiani, combattere con loro; tutto questo avrebbe dovuto però aspettare ancora: avevano un compito da svolgere. La rapidità adesso era vitale.
Sapevano che non sarebbe passato troppo tempo prima che carichi di ungheresi iniziassero il loro triste viaggio verso Auschwitz. Un contadino che lavorava in un campo si raddrizzò e stette a guardarli mentre si avvicinavano. I due fuggiaschi, che ora erano in territorio amico, decisero che potevano fidarsi di lui.
«Dove siamo?», gli chiesero - «Vicino al villaggio di Skalite. Non lontano dalla città di Cadca», rispose il contadino.
«Abbiamo bisogno di aiuto. Dobbiamo arrivare a Cadca», gli dissero Rudolf e Fred. Il contadino conosceva un dottore ebreo, il dottor Pollak. Li avrebbe guidati fino a lui. Una volta a Cadca, arrivarono a una grande costruzione dove il dottore aveva il suo studio. E si bloccarono. All’ingresso principale stazionavano due soldati dell’esercito slovacco, di fatto nelle mani dei nazisti. In realtà, erano proprio davanti il quartier generale dell’esercito slovacco, dove il dottore aveva una stanza per le visite.
«Al diavolo», bofonchiò Fred. «Non possiamo essere malati come chiunque altro?» La sentinella non li degnò di uno sguardo mentre gli passarono davanti. Pochi minuti dopo, erano entrambi seduti in una stanza antisettica, raccontando la loro storia al dottor Pollak.
Lui ascoltò attentamente, poi disse: «Stanotte, dormirete da me. Domani, vi porterò dai leader della comunità di Zilina. Loro sapranno qual è la cosa migliore da fare».
Il giorno dopo, Rudolf e Fred sorseggiavano sherry alla sede centrale del Consiglio ebraico, e raccontavano di nuovo la loro storia, ora al dottor Oscar Neumann, portavoce di tutti gli ebrei slovacchi. Vrba e Wetzler guardarono negli occhi gli uomini intorno al tavolo e ebbero una terribile
sensazione: che non credessero a una sola parola del loro racconto. Perché avrebbero dovuto, dopotutto? Come avrebbero potuto? Nessuna mente riusciva ancora a immaginare l’assassinio di massa sulla scala di Auschwitz.
Continuarono a parlare.
Il rapporto Vrba-Wetzler è un documento di 32 pagine meglio noto come Auschwitz Protocols, anche se in realtà i Protocolli contengono tre documenti di cui quello scritto da Vrba e Wetzler è solo uno. Fu scritto a mano, dettato in slovacco e battuto a macchina tra il 25 e il 27 aprile. Vrba e Wetzler furono messi in due stanze diverse e fu chiesto loro di iniziare a scrivere i loro racconti. Il rapporto fu scritto e riscritto più volte. (...) Tre settimane prima della fuga di Vrba, l’esercito tedesco aveva invaso l’Ungheria, alleata della Germania, e un ufficiale delle SS, Adolf Eichmann, era arrivato a Budapest per sovrintendere le deportazioni a Auschwitz. I trasporti cominciarono il 15 maggio del 1944, a un ritmo di circa diecimila persone al giorno. Alcuni dettagli del rapporto per allertare il mondo su quello che davvero stesse accadendo a Auschwitz furono trasmessi per radio in ceco e slovacco dalla Bbc e diversi giorni più tardi furono pubblicati dal New York Times, spingendo alcuni leader mondiali a intimare al reggente ungherese Miklós Horthy a fermare le deportazioni, altrimenti considerandolo responsabile in prima persona alla fine della guerra. Il 7 luglio del 1944 Horthy sospese le deportazioni.
437.000 ebrei ungheresi furono mandati a Auschwitz tra il 15 maggio e il 7 luglio del 1944, quando le deportazioni cessarono. Con ogni probabilità, se ne salvarono 200mila, che non salirono su quei treni blindati. Grazie anche alla fuga di Vrba e Wetzler. Dopo aver redatto il rapporto, Vrba si fermò a Bratislava. Nell’agosto del 1944 l’esercito slovacco insorse contro i tedeschi. Vrba raggiunse un’unità partigiana nel settembre e combatté come mitragliere.
Si conquistò una medaglia per il coraggio in battaglia.

"alias - il manifesto", 5 novembre 2011

Nessun commento:

Posta un commento