A un lustro dalla morte di Franco Fortini Massimo Raffaeli scrise per il “manifesto” questa appassionata e rigorosa paginetta critica, che non solo “protegge” - com’è giusto fare – il poeta e profeta dei vinti del Novecento, disprezzato dai vincitori e volgarmente ridotto a saggista, moralista, estremista, classicista o retore, ma ne coglie con efficacia i tratti essenziali. Da leggere e conservare. (S.L.L.)
Franco Fortini. Ritratto di Moreno Gentili |
A riaprire i giornali che martedì 29 novembre 1994 annunciavano la morte di Franco Fortini c'è da rimanere sgomenti. Non solo per il sussiego che confina la notizia in taglio basso o in una nicchia delle pagine centrali ma per il contesto che rende quell'allora un momento remoto e insieme un oggi parodistico. Lontano e, per tragico paradosso, vicino a noi nello sconcio sistematico di tutto quanto si voglia altro e contro i poteri dominanti, di chi desideri per sé e i propri simili non l'orizzonte catafratto del presente ma la linea di confine in cui si cela, intatto e tante volte rinnegato, il «sogno di una cosa».
Sul manifesto di quel martedì campeggiano, galleggiando sul titolo-beffa che ne fa dei compagni di classe, due tra le maschere più lerce del capitalismo italiano, l'imperituro presidente della Fiat e il monatto di lusso poi responsabile della liquidazione dell'Olivetti; il sommario indugia sul piccolo monarca di Arcore e sulla mazzata alle pensioni, mentre si sdegnano i sindacati e la Caritas. Il box a fondo pagina ricorda l'ennesima strage a Sarajevo. Lì vicino, la foto e l'annuncio della scomparsa di Fortini, col richiamo degli articoli firmati all'interno da Rossanda, Asor Rosa, Ceserani, D'Elia e Silvestri.
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Tutto sembra diverso da quel martedì (coaguli geografici, dominanti d'area, persino certe sagome da palinsesto) però nulla è mutato in profondo. Anzi è peggiorata, qui come altrove, la condizione e la stessa speranza di vita degli uomini, specie di coloro che si trovano al margine o sotto rispetto ai meccanismi che decretano qualità/senso/durata dell'esistere. Anche in questo ci manca Fortini, nella sua capacità (spesso scambiata per moralismo, settarismo, spirito scismatico) di profezia e di ossessione nel ripetere verità elementari e decisive: che ad esempio la divisione tra le classi è ingigantita, che ha spezzato le coscienze abbuiandole, che infine la perfezione del capitalismo consiste in un sapere tanto più forte quanto più fa a meno di ogni forma di «sapienza» capace di discriminare fra essere e possedere, tra la maestà di un presente armato fino ai denti e la verità della forma futuri. Perciò a mancarci è, innanzitutto, la parola poetica di Fortini, che lui voleva deprivata del colore, incisa in un freddo di lapide, perché poi tornasse negli inverni del dominio e dello sfruttamento, anzi divenisse (lo reclama apertamente un suo verso) promessa eucaristica, cibo e bevanda per molti.
Da Foglio di via ('46) che irrompeva con essenzialità di accento fra i cascami dell'ermetismo e l'orgoglio del neorealismo, a Poesia e errore ('59) da Questo muro (73) al libro dettato in punto di morte, lo stupendo Composita solvantur (Einaudi 1994), Fortini è uno dei massimi poeti del secolo. Con poche eccezioni (Mengaldo, Raboni, Berardinelli, Luperini, Edoarda Masi) la cultura del nostro paese stenta a capacitarsene e spesso chi ne ammette a mezza bocca l'acume, il magistero intellettuale del saggista di Dieci inverni ('57) e Verifica dei poteri ('65), lo fa per negare la fisionomia che invece era più sua. Tante volte definita cerebrale ed ermetica, non che la poesia gli affiorasse dallo spazio bianco e incorrotto dell'anima (parola che infatti detestava); piuttosto, gli avevano insegnato sia i classici sia gli amati Francofortesi, essa costituiva la promise de bonheur, l'anticipo di una umanità liberata o meglio riscattata, che reintegrasse nella forma le mutilazioni che storia e natura (i limiti biologici, le dinamiche storico-sociali) infliggono al corpo e alla psiche degli individui. La considerava non una via di fuga, pari al castello interiore dei coetanei ermetici, ma uno spettro buono, il messaggio in codice e la prova formale del comunismo in ciò d'accordo coi soli che gli sono davvero consanguinei, Bertolt Brecht e Attila Jozsef.
Il titolo scelto da Luca Lenzini per un bel volume di studi fortiniani [Il poeta di nome Fortini - Saggi e proposte di lettura, Pietro Manni, pp. 230) ha valore di rivendicazione e di ricompensa. Sono otto saggi stesi in tempi e occasioni differenti però armonizzati in uno schema concentrico e sostenuti da profonda affinità con l'oggetto di indagine, che esige chiarezza espositiva ed uso sorvegliato, anche quando raffinatamente formale, degli strumenti interpretativi. Come nel caso dell'ultimo, che muove dal verso terminale di Fortini, epigrafe e urlo che si affida alla cecità dei contemporanei, Proteggete le nostre verità, parola temeraria, pronunciata con timore o tremore, ma anche necessario ammonimento «a non cedere al nichilismo, a non arrendersi al Grande Fosforo Imperiale»; mentre suona in parallelo un altro verso, più imperativo di una parola d'ordine, Voi tutto dovrete inventare.
Il paesaggio scrutato da Fortini sul principio degli anni Novanta, la rigatteria del dopo-Muro che trova concordi i generali del Pentagono con taluni ideologi del postmoderno, non è affatto il fondale su cui si proietta con monotona tautologia la fine della storia; è semmai un paesaggio di rovine storiche, coi crateri che ne inghiottono la parte deragliata, sterri di fosse comuni, e polle d'acqua avvelenata. L'acqua della sopravvivenza e della disperazione, il miraggio di ciò che ora viene fatto coincidere senz'altro con la normalità: in altri termini, il darwinismo sociale, l'ecosistema della dittatura finanziaria e della guerra cosiddetta umanitaria.
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Ancora moralismo? Estremismo? È comodo liberarsi di Fortini, del suo immaginario tetro e invernale, accusandolo di essere (come puntualmente è avvenuto) il retore della nuova sinistra, un classicista apocalittico, l'ombra di Banquo, litigiosa e intollerante, della letteratura italiana; difficile è invece rimanere all'altezza della sua ustione fredda, serbando la spina di parole che castigano ragionevolezza e musica.
Quasi che il calore dell'immagine incarnata, la confidenza col lettore, la transitività, negassero destinazione e senso a chi parla «dal basso e a nome del futuro», ovvero ne sprecassero i talenti nella immediatezza di un soddisfacimento puramente estetico.
(Posizione isolata che a lungo è parsa non avere eredi, nemmeno indiretti, e che oggi torna, coi nomi dell'inverno e della pietà, fra guerre perpetue, in alcuni fra i maggiori poeti dell'ultima generazione, il ticinese Fabio Pusterla e Antonella Anedda, nel cui Notti di pace occidentale, appena edito da Donzelli, si legge un distico di piena consonanza col maestro: «Ciò che chiamiamo pace/ ha solo il breve sollievo della tregua./».
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Ma per focalizzare Fortini (la sua apparente distanza e la sua soccorrevole prossimità) è necessario leggere nel volume di Lenzini il saggio dedicato ai rapporti con Brecht, quasi un doppio, il poeta che esige una passione altrettanto fiera e amara per meritare di intenderlo. Al culmine, c'è la versione di Il ladro di ciliege, una poesia scritta da Brecht in Scandinavia sotto il dilagare delle armate hitleriane, nei modi popolareggianti di un idillio, in bilico fra la dolcezza struggente di un interno domestico, animato da un piccolo vagabondo inconsciamente comunista, e l'incubo della strage che preme, muta e innominata, oltre le pareti: «Una mattina presto, molto prima del canto del gallo/ mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra./ Sul mio ciliegio - il crepuscolo empiva il giardino - / c'era seduto un giovane / con un paio di calzoni sdruciti/ e allegro coglieva le mie ciliege. Vedendomi /mi fece cenno col capo a due mani /passando le ciliege dai rami alle sue tasche./ Per lungo tempo ancora, che ero già tornato a giacere nel mio letto, / lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.//»
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Presentandola, parlò di questa scena come di un sortilegio della vita contro la morte e aggiunse che il ladruncolo si stampava sul nero della catastrofe recando l'eleganza e l'allegria di un angelo. Alla lettera, di un messaggero. Vivente allegoria del suo messaggio poetico, il ladro di ciliege dice di una eredità inaspettata, di una complicità mai dichiarata che, diseppellendosi dal marmo e dal gelo, ritorna intatta al lettore. Ora costui è libero di tornarsene a letto, magari ruminando in dormiveglia l'ultimo titolo del giornale, ma qualcosa l'avrà sorpreso e turbato nel profondo; e se sognerà (Dante scrisse che i sogni dell'alba sono i più veritieri) sognerà forse il sogno di una cosa, il gratuito disporre della vita. Naturale, plastica, e finalmente umana, dentro un vincolo tra eguali senza parole condiviso: una e di ognuno.
“il manifesto”, 28 novembre 1999
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