1.3.13

Cain contro Chandler (di Piero Sanavio)

Lana Turner in "Il postino suona sempre due volte" (1946)
E’ malvezzo diffuso quello delle recensioni divaganti, che consiste nel parlare di quello che si vuole o di quello che si sa dedicando poco più di un accenno al libro di cui si dovrebbe scrivere. Ad esso fa più di una concessione Piero Sanavio, recensendo un libro postumo di James Cain su l’ultimo “alias-talpa” di febbraio 2013, ma il suo divagare risulta tuttavia colto e interessante.
L’articolo, di cui riprendo un ampio stralcio, è in realtà un confronto tra Cain e Chandler, autori di gialli e soggettisti di celebri film, con una netta preferenza per il primo.
Non sono d’accordo con la stroncatura di Chandler, ma l’aspro giudizio di Sanavio sul suo sentimentalismo e le indicazioni sulla “naturalità”  e credibilità di Cain possono essere punto di partenza per una feconda rilettura di questi due grandi. (S.L.L.)
Robert Mitchum in "Farewell, my Lovely" (1975
Edmund Wilson disprezzava il romanzo giallo e le sue estensioni (detective, mystery, crime novel) relegandolo nella sottocultura. Trovava inetto Hammett ma dichiarava che The Lady in the Lake di Chandler lo aveva «divertito». Chandler, dal canto suo, incontestato ammiratore di Dashiell Hammet, detestava James Cain (1892-1977) definendolo «un falso naïf, un Proust in tuta da operaio». Naturalmente, affermare che Cain, il più «naturale» pulp writer della sua generazione e del quale è appena stato pubblicato il postumo La ragazza dei cocktail (Isbn), non raggiunge le altezze formali di Proust, non è un discorso critico – e Cain, che sosteneva di non appartenere alla scuola dei duri, la hard-boiled school del gruppo Chandler-Hammett, non pretese mai di confrontarsi con lo scrittore francese.
Doveva invece pensarlo di sé, per le sue colte citazioni e le sinistre, suggestive, spesso verbose descrizioni di Bay City (un compendio di San Francisco e L.A.), Chandler con il quale il tempo non è stato clemente, lo stupore per l’esotismo dei luoghi esauritosi con il moltiplicarsi dei viaggi organizzati. Sotto la porporina hard boiled prepotente è un sentimentalismo che definire adolescenziale è dire il meno e investe (The Little Sister; The Lady in the Lake; Farewell my Lovely) anche il personaggio-icona, il fumettistico Philip Marlowe. Cavaliere «senza macchia» la cui scorza di duro trabocca nell’autoparodia azzerando l’apprezzabile umorismo di certi dialoghi, Marlowe non ama le brutalità poliziesche o la corruzione dei politici ma è al di sopra della legge visto che non esita a violarla o a procurarsi clienti con operazioni che sfiorano il ricatto (The Little Sister). La
sua credibilità appartiene a qualche recitazione cinematografica: più che al saltellante Humphrey Bogart de Il grande sonno (1945) di Howard Hawks, all’ingombrante presenza fisica, corrosa dalla stanchezza degli anni, di uno straordinario Robert Mitchum in Farewell my Lovely (1975) di Dick Richards. I limiti del personaggio, comunque, erano apparsi già a Robert Montgomery, attore e regista di The Lady in the Lake (1947) e dove Marlowe compare fisicamente una sola volta, riflesso in uno specchio – per il resto del film sostituito dalla voce narrante di un «Io» che è la macchina da presa.
È possibile che il migliore romanzo di Cain sia Il Postino suona sempre due volte (1934), ripetutamente portato sullo schermo e la cui versione che ne diede Tay Garnett (1946) colpì Pavese al punto da fargli trasporre la scena di John Garfield e Lana Turner sulla spiaggia in qualche nostalgico paragrafo de La luna e i falò. Pavese intravedeva Maupassant alle spalle di Cain e l’accostamento è possibile, né soltanto nel senso che anche Maupassant, come Diderot e M.me de Genlis, e come Cain, naturalmente, ha un suo posto nel filone del roman noir. Figlio di un insegnante e di una cantante lirica, occasionalmente minatore in una miniera di carbone, lui stesso per un certo periodo insegnante di letteratura inglese, Cain credeva che al suo stile non fosse estranea l’esperienza di cronista per il «Baltimore American» e il «Baltimore Sun». L’inizio del Postino è straordinario, uno scheletrico susseguirsi di fatti che ricorda lo Hemingway dei migliori racconti. «Mi buttarono dal camion di fieno verso mezzogiorno. Mi c’ero infilato giù al confine la notte avanti, addormentandomi appena sotto il telone. Dopo tre settimane a Tia Juana ne avevo un gran bisogno». È comprensibile che nell’Italia di Papini, Panzini, Répaci, dello stesso Bontempelli, Pavese restasse affascinato – per rendere palpabile il movimento persino gli za-bùm di Marinetti apparivano obsoleti. Il problema, con Cain, stava nell’incapacità di trasmettere un’emozione mantenendo per tutto il romanzo gli incalzanti, mutevoli equilibri dell’inizio – ma questo è imputabile anche a Chandler, per non parlare di Hammett dall’invincibile rozzezza.
[…]
Nel romanzo giallo la novità non risiede nell’invenzione linguistica, a meno che l’elemento poliziesco non sia, come in Faulkner, escamotage per un’opera di letteratura. L’alternativa, per il giallista che voglia rinnovare il racconto, è cambiare il milieu, fare ricorso al meraviglioso, l’esotico, il non-usuale. Per ovviare alla ripetitività Simenon spostava la fabula in province sempre diverse dell’Exagone e tuttavia sempre identica restava la meccanica dell’azione, prevedibile il susseguirsi dei fatti, identiche le personae. Non bastava cambiare i nomi. In Cain e in Chandler troviamo la stessa ripetitività narrativa – dopo il successo dei primi romanzi e la loro trasformazione in film la scrittura non è più invenzione, il romanzo non più romanzoma sceneggiatura. Ne fa fede la crescente, dettagliata descrizione degli interni (ossessiva in Chandler), dell’abbigliamento, dei gesti anche più insignificanti, e non risponde a nessuna economia drammatica ma alla prossima traduzione della fabula in film – sono indicazioni per i costumisti e gli attori. Nessuna obiezione, soltanto la considerazione che non si tratta più di letteratura. Nessun happy end in Chandler se non la soluzione del puzzle iniziale («who done it?», «chi l’ha fatto?») e l’immortalità di Marlowe che, dopo l’imbarazzante The long Goodbye, svelerà l’inconsistenza delle sue durezze comportamentali cedendo alle melasse hollywoodiane del matrimonio d’amore con ereditiera.
Nessun happy end in Cain, neppure – ma con quanta maggiore credibilità. Interprete della disperazione del sottoproletario, di quell’icona del diseredato che fu lo hobo anni trenta, delmarginale (lo è l’assicuratore di Double Indemnity, ’38, appena una tacca sopra al commesso viaggiatore; lo è Jess Tyler de La Farfalla, ’48; lo è la «dark lady» de La ragazza dei cocktail), Cain sembra esemplificare la formula fitzgeraldiana che «non esistono secondi atti nella società americana» e che ogni vittoria è in realtà una sconfitta. In Mildred Pierce (1941), il successo economico della protagonista ha il suo parallelo nel disprezzo che per lei prova la figlia: per il lavoro con il quale la madre l’ha mantenuta nell’agiatezza. Decisa a affrancarsi dalla sua condizione di subalterna, Joan Medford, la «ragazza dei cocktail», deve scegliere tra un giovane povero e un vecchio ricco – conscia che il risultato sarà comunque un fallimento.

“talpa – alias” 24 febbraio 2013

2 commenti:

  1. Ho trovato molto divertente, quanto scritto da Piero Sanavio su Chandler e la scuola dei duri. E significativo del suo pensiero, per quello che lascia intendere, l'uso di "fumettistico" riguardo Philip Marlowe. Tutto molto superficiale, specchiato, compiaciuto. E poi definire "Il lungo addio" imbarazzante, è di una povertà assoluta. Cain ha un suo posto nella letteratura noir, ma come Ross Macdonald - che sopporto solo nei racconti brevi - non è né all'altezza di Hammett nè di Chandler. La fama di Cain deve molto alle versioni cinematografiche del "postino" - che i più ricordano per il torbido della trama - e al genio del grande Billy Wilder.

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  2. Ringrazio Roberto Leoni per questo suo intervento che mi conferma le perplessità su Sanavio e mi sollecita a una rilettura, sia di Chandler che di Cain, per verifiche e confronti. Su una cosa concordo a prescindere, il genio di Billy Wilder, i cui film amo appassionatamente.

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