28.3.13

Esotismo. Nostalgia per l’Altro che abbiamo distrutto (Girolamo Imbruglia)

Il sintetico testo che segue, tratto da una “talpa” del manifesto dedicata all’esotismo, ne descrive una sorta di genealogia, collegandola alla nascita di una nuova economia-mondo il cui spazio si estende dall’Estremo Oriente alle Americhe. L’autore è oggi docente all’Università Orientale di Napoli, ove insegna Storia dei paesi di lingua inglese. (S.L.L.)
Paul Gauguin - Disegno dai diari di viaggio a Noa Noa
Singolare destino ebbe Cristoforo Colombo. Scopritore ma non eroe eponimo dell'America, la sua relazione fu nel '500 oscurata da quella di Amerigo Vespucci.
Ancora uomo del XV secolo, Colombo era animato dal fervore umanistico di dialogare con altre culture, di realizzare una universale armonia di voci, dopo che per secoli l'Europa aveva dovuto difender sé più che attaccar altri. Alla fine del '400 quest'equilibrio si ruppe.
L'Europa scoprì una nuova economia-mondo, il cui perno stava non più a Venezia ma in Olanda e Inghilterra. Dal mondo chiuso del Mediterraneo si passò agli orizzonti oceanici.
Comparve la nuova economia «capitalistica», che imponeva nuovi atteggiamenti, provocata pure da nuovi desideri.
Avidità e ambizione, sete di ricchezze e di gloria, desideri di onore e potere, uomini a mezzo tra volpe e leone: si affermavano passioni nuove e forme diverse di saperi e conoscenze; si esprimevano nuovi immagini di società per dare adeguate leggi a queste nuove energie.
L'Utopia di Moro, il Principe, Lutero davano voce a questi sogni e facevano vedere quale fosse l'antropologia dell'epoca.
Il mondo nuovo s'avvicinava dall'interno; era un futuro che pareva venire dalle remote lontananze del passato originario, dal fondo della natura. Questo fu lo scenario della scoperta delle Indie.
La rete di relazioni sociali di tipo borghese che allora si affermava ricevette, come disse Marx, straordinario impulso dalle scoperte; ma quelle scoperte pure cercò e a quelle mise il segno dei nuovi rapporti umani: non il dialogo ma il dominio, la lotta per esser o servi o padroni.
Per questa ragione Colombo non fu creduto. La sua America era un mondo troppo vicino all'Europa, al punto da costituirne la perfezione.
Parve a lui la terra del paradiso; gli indios, belli, miti, religiosi, erano facili da cristianizzare. Aveva lì trovato la conferma del millenarismo dell'Apocalisse.
Insieme al venir meno della tensione escatologica, pericolosa per la chiesa di Roma, anche questa omogeneità non fu accettata.
Il disagio della propria civiltà, lo sbigottimento e la difficoltà di comprendere le nuove realtà dell'Europa, la necessità di ancorare i propri bisogni e desideri quanto più al sicuro tanto più lontano dalla propria vita, guidarono la cinquecentesca scoperta dei selvaggi e dell'Oriente.
Dopo l'affermazione della religione monoteista, il secondo grande evento nella formazione dell'individuo moderno fu, per Freud, proprio l'incontro con gli indios.
Ma per essere l'ideale di felicità, dovevano rappresentare l'Altro.
America e Oriente furono scoperti insieme. Nel 1498 Vasco de Gama era a Calicut, l'Oriente favoloso del Milione era raggiungibile per la via più sicura, il mare.
Lì v'era la più antica sapienza; lì ori e perfette culture di remote civiltà. Al contatto, il mondo americano sembrò l'infanzia della storia universale, privo del sole della ragione. Popoli selvaggi. Là erano anche barbari.
Gli americani per Vespucci «vivono secondo natura»: valore bestiale, ch'era assenza di gerarchia e pratica di incesto.
Quel che Colombo aveva giudicato innocenza è ora colpa. La natura si svela ambivalente: pura, poteva esser impura; modello, poteva essere uno spaventoso fantasma da controllare. Più rassicurante il mito d'Oriente.
Durer, nel 1515, introdusse nell'Arco trionfale per Massimiliano I una nota extraeuropea: i suoi stupendi indiani furono, appunto, la gente di Calicut, che ben si addiceva al potere imperiale.
Nel lungo confronto con le due Indie, l'Europa cercò quindi di raggiungere la verità della propria natura e di quella degli altri popoli.
L'esotismo nacque quando venne meno questa tensione, per celebrare la piatta realtà. In questo senso, prima forma di esotismo fu quello cristiano. Esotismo negativo, i missionari si diedero il compito di giustificare la Conquista. La forza era bastata, occorreva pure inventare il diritto.
Per il gesuita Acosta, v'era una progressione discendente. In alto gli orientali, che avevano uso di ragione; in mezzo i Peruviani e Messicani, rozzi ma non incolti; in basso gli indios, senza re leggi dio. Più bestie che uomini, costoro vivevano in gruppi animaleschi tenuti insieme dalla «libido». Giusta era la civilizzazione anche forzata di tali uomini senza umanità e sovranità.
Anche se talora i Gesuiti mitigarono la furia coloniale europea, se ebbero conoscenze precise di usi di popoli poi annientati, il loro mito del cattivo selvaggio fu esotismo, strumento di una filosofia della storia totalizznte, solidale dello sterminio e della colonizzazione di quei popoli.
Contemporaneo di Acosta, Montaigne avviò invece il pro¬cesso critico di comprensione dell'Altro, rispettoso della differenza. Suo punto di partenza fu l'opposto mito del buon selvaggio, che si risolse in critica dell'eurocentrismo. Gli indios erano selvaggi ma non barbari. La nozione di barbarie non era un valore assoluto, ma un giudizio reciproco, circolare, frutto di educazione e pregiudizi. Tali la religione e la politica.
Per sfuggire alla spontaneità delle passioni emerse allora l’idea della ragione naturale. Dopo aver così svincolato la recto ratio dalla religione, questo primitivismo mise in crisi anche il dogma del nesso tra società e Stato. La società selvaggia come nuova età dell'o¬ro fu un'utopia che servì a pensare non lo Stato perfetto, ma la società senza Stato.
La naturale tendenza umana a vivere in società fu ancorata da Locke in una società selvaggia, pacifica ma priva di magistrati e di leggi perché priva di proprietà privata e ricca di beni naturali, i cui capi non avevano che potere militare. Quanto più si fece felice ipotesi interpretativa, tanto più questo modello perse di valore utopico. Per poter sussistere - disse Montesquieu –t ale società selvaggia aveva bisogno d'esser piccola di volume, in grado di vivere di poca agricoltura ma di molta caccia e raccolta. Non era utopia adeguata al mondo moderno: per il quale l'utopia divenne la repubblica democratica.
Proprio l'individuazione del nuovo spazio, politico, per l'utopia permise a Diderot di utilizzare ancora il modello primitivistico rinascimentale. In uno dei due più bei testi del 700 sui selvaggi, il Supplemento al viaggio di Bougainville (l'altro è il Discorso sulla disuguaglianza di Rousseau), il selvaggio di Tahiti è l'uomo non più vittima delle proprie credenze, cui la paura della morte e della vita non soffoca la gioia di esistere; in armonia con sé, trova con il gruppo linee di raccordo che non sacrificano la sua felicità.
In quel mondo ancora fuori della storia, Diderot indagò la fondazione della dialettica tra natura e cultura; si avvicinò nella prospettiva delle scienze umane, alla realtà individuale
Per la prima volta l'individuo non è più ineffabile. Se ne vedono i fantasmi e le forze interne, se ne afferma soprattutto l'esigenza di felicità e libertà. Da qui, Diderot criticò l'idea di specie e la tesi dell'omogeneità psichica del genere umano. Così come Rousseau, che pure difese l'irriducibile diversità d'ogni nazione e d'ogni uomo.
Anche la società selvaggia è però toccata dalla storia, dunque dalla dialettica verità-alienazione. L'uomo originario andava trovato oltre di quella, dal momento che il selvaggio è «crudele». Un lungo arco di riflessione sull'Altro e su di sé si concludeva qui.
Ma questa teoria critica, momento culminante di tale travaglio, fu subito accantonata. Altre le esigenze. Il rispetto delle diversità si fece suo sfruttamento: razzismo. La critica all'etnocentrismo fu rimossa: Condorcet chiese l'eliminazione delle ultime tribù per favorire il progresso generale. Nell'affermazione piena di sé, gli Europei non sentivano più il bisogno dell'Altro: ne restò la nostalgia.
La nuova, secolarizzata filosofia della storia esigeva l'universalismo e la logica della necessità dello sviluppo. Ritornò, allora, laicizzato, l'esotismo.
Il filone esotico nell'arte, esiguo nel 700 che cercò di non europeizzare i selvaggi o l'Oriente, si andò rinforzando. Se il Flauto magico è una straordinaria riscoperta dell'ambiguità del mito orientale, I pellegrini della Mecca di Gluck o il Fernando Cortez di Spontini sono gli infelici prodromi di quel diluvio di esotismo che si avrà in Francia dal 1830. L’epoca, appunto, di Gobineau.

“la talpa – il manifesto”, 27 luglio 1989

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