29.3.13

Fra madre e figlia, a quattro mani (di Roberta Carlini)

Dal "Bo", il giornale dell'Università di Padova, riprendo l'articolo che segue di Roberta Carlini su un libro che da come lo racconta doovrebbe essere bello e importante. (S.L.L.)
Maddalena Vianello e Mariella Gramaglia
Non si contano, nella letteratura e nella saggistica, le lettere ai figli. Genere di recente arricchito dalle letterine-bignami, come l’economia o la Costituzione o il razzismo “spiegato a mio/a figlio/a”. Fra me e te (Et al., 2013), invece, è un libro fra madre e figlia, scritto a quattro mani da Mariella Gramaglia – la madre, una delle protagoniste del femminismo italiano - e Maddalena Vianello - la figlia, ricercatrice, organizzatrice culturale, attivista. Si scambiano riflessioni in forma di lettere, consegnandoci un dialogo tra due generazioni che attraversa tutti i temi cruciali della nostra vita politica, economica, sociale: il ruolo e il valore delle donne; la questione generazionale; e il lavoro, la condizione precaria, zingara e intermittente delle giovani donne lavoratrici di oggi, raccontando la quale Maddalena dà voce alla sua generazione e introduce il più forte elemento di diversità e contrapposizione con quella delle madri.
La condizione materiale irrompe nell’epistolario quasi a sorpresa, dopo che le prime lettere hanno introdotto i vari temi e chiarito il contesto in cui Mariella e Maddalena hanno deciso, non senza tremori, di lanciarsi nell’impresa del libro. Il contesto è quello dell’epilogo dell’ultimo governo Berlusconi, gli scandali sessuali, il Rubygate, e l’emersione della protesta femminile fino alla grande manifestazione del 13 febbraio del 2011. Giorni che accendono le riflessioni e le discussioni su “che fine hanno fatto le conquiste del femminismo”, sulla libertà di scelta e la dignità delle donne. Maddalena attacca, Mariella ricorda e puntualizza: la distanza percorsa, la scalata al cielo, la rivoluzione culturale, le conquiste portate a casa, e in casa.
Eppure “io mi sento più reduce di te”, scrive la figlia alla madre, in una lettera dal titolo significativo: “Il master e le bollette”. Ma non basta. Se la figlia si sente “più reduce” della madre è perché ha cambiato cinque città in dieci anni, ha girato l’Europa collezionando titoli prestigiosi e lavori meno prestigiosi, ha amici in tutti gli emisferi per emigrazione forzata, e ogni volta che lascia una casa non porta via le lenzuola perché pesano troppo e “conviene lasciarle piuttosto che pagare il sovrapprezzo alla compagnia aerea”: ma quello che poteva sembrare, alle ragazze degli anni ’60, un miraggio di libertà è una condanna alla precarietà. “Sono stanca di non poter scegliere la mia vita a trentadue anni. Stanca di non poter vivere dove voglio perché il lavoro non si trova, di girare come una trottola per subire condizioni di lavoro umilianti”, scrive Maddalena. “La mia tesi di master, premiata fra i lavori di maggior valore dell’anno accademico alla London School of Economics, non mi paga le bollette”.
Maddalena non parla solo per sé, ma per tutte le sue amiche, e per quei numeri delle statistiche che ben conosciamo: quelli col segno negativo (bassa occupazione, gap salariale, part time involontario, sottoinquadramento, soffitto di cristallo nei posti di lavoro); quelli terribilmente e inutilmente positivi (nel campo dell’istruzione, dalla scuola all’università); e quelli di una bassa fecondità che è il prodotto non della libera scelta per la quale la generazione dei ’60 e ’70 ha lottato, ma della condizione di precarietà in cui la gran parte delle ragazze vive, che rende la maternità un diritto impossibile, un’aspirazione da rinviare indefinitamente, o una scelta da pagare a caro prezzo.
“Non vi renderò mai abbastanza grazie per le conquiste per cui avete lottato, quelle che nella mia vita sono acquisizioni da difendere. Mai abbastanza. Solo che qui la situazione è sconfortante e noi sopravviviamo. Non è un bel vedere. Perdona questi toni – è Maddalena che parla-, ma sono molto arrabbiata. Anche con te. Mi avevi raccontato che il mondo era diverso, che essere donna era una cosa diversa. E io ti avevo creduto. Mamma, il cestino dei regali è talmente impolverato da sembrare vuoto”.
Una lettera durissima, che quasi fa rimpiangere a Mariella di aver scelto la forma del dialogo (“Ho pensato che non ero in grado di risponderti. Che mi ero messa in un gioco troppo duro”), e non il frequentato genere della lettera al discendente. Ma il dialogo si dipana, e pazientemente prova a sciogliere tutti i nodi; richiama il passato, lo confronta, lo intreccia; si nutre dell’attualità, delle discussioni nei movimenti e fuori; irrompono ricordi, e anche colpi di scena. Il tutto in un epistolario che si fa narrazione; e nel raccontare, le due autrici non risolvono – non avrebbero potuto - il tema gigantesco posto da Maddalena, ma lo pongono al posto giusto, una volta per tutte. Al centro della scena.
Ma non è un sentimento negativo, quello che si prova una volta completata la lettura e chiuso il libro. Complice la congiuntura politica e sociale del periodo in cui il diario-epistolario è stato scritto (le manifestazioni delle donne), e soprattutto l’intenzione delle autrici, i toni non sono mai quelli del lamento delle vittime. Maddalena porta la sacrosanta dote di rabbia e volontà di reagire, Mariella il valore aggiunto di un’eredità ricchissima da consegnare: “Il maternage è finito. Il femminismo italiano ha la missione di passare il testimone e di battersi perché lo spazio pubblico si apra intorno a quelle che ambiscono a frequentarlo”. È necessario che siano le più giovani a raccogliere la sollecitudine verso la vita e verso la cosa pubblica. Libere. Nel bene e nel male”, scrivono nell’epilogo. A quattro mani.

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