16.3.13

INA-CASA. Il piano Fanfani di edilizia popolare negli anni 50 (Carlo Olmo)

Un bell’articolo di Carlo Olmo, rievocativo del piano case di Fanfani, dei primi anni Cinquanta, uno dei momenti più importanti della ricostruzione post-bellica. Quel piano non attirò solo – come rammenta Olmo – i dubbi degli architetti più avvertiti, ma anche le critiche esplicite della sinistra politica; tace, forse per carità di patria, che intorno a quelle case popolari cominciò a formarsi e a consolidarsi il potere clientelare della Dc. Nondimeno, di fronte al disastro verificatosi a partire dagli anni Ottanta, quelle realizzazioni suscitano nostalgia.
Da quando è stata cancellata ogni idea di programmazione urbanistica, motivandolo con l’intento di non bloccare lo “sviluppo”, il territorio italiano è oggetto di una deregulation sfrenata che – insieme a cementificazioni estese e insensate, vere e proprie rapine di territorio - ha prodotto mostri, ruderi, aree industriali dismesse, centri abbandonati e in abbandono.
Forse un ritorno alla progettazione di quartiere, questa volta intesa come recupero, riuso, ristrutturazione razionale, è la via del risanamento e la lezione del piano-casa potrebbe ritornare utile. A condizione che si accetti un ritorno massiccio al “pubblico”.
E non ci si atterrisca del pessimo livello del ceto politico. La scarsa qualità, anche etica, dei politicanti non è frutto della irredimibilità del “pubblico”, sempre e necessariamente parassitario, corrotto e ladrone, ma della “privatizzazione del pubblico”, dell’idea che le istituzioni debbano porsi non al servizio del benessere di tutti o, almeno, dei più, ma dello sviluppo e delle imprese che lo promuovono. Da qui l’intreccio inestricabile politica-affari, da qui la competizione individuale più aspra e la corsa all’accaparramento di risorse da parte dei politicanti, da qui la riduzione dei partiti a fabbriche di carriere e delle pubbliche amministrazioni a comitati d’affari. (S.L.L.)
Un quartiere Ina-Casa a Cesate, sulla direttrice Milano-Varese
Cosa è stato il piano Ina-Casa? L’immagine forse più chiara la si ha da un aereo che atterra a Torino, Milano, Roma, Bari o, se fosse possibile, a Carbonia, a Capri o a Cannobio. Al di là della città storica, le uniche parti della città contemporanea, quella della dispersione insediativa, che, ancora oggi, hanno forma sono quelle pubbliche: e dentro queste ancor più i quartieri realizzati nei quindici anni (1949-1963) dell’Ina Casa. Approvata il 24 febbraio 1949, dopo un iter parlamentare di otto mesi, preceduta e accompagnata da molti, altri piani o proposte – da quella di Puggioni a quella di Miniati, da quella di Bottoni a quella di Diotallevi e Marescotti – il piano prende avvio il 7 luglio dello stesso anno con il primo cantiere a Colleferro. Nel maggio dell’anno successivo sono già avviati 414 cantieri. A pieno regime il piano realizzerà settimanalmente 2800 alloggi, assegnando ogni sette giorni casa a 560 famiglie. Dal 1950 a tutto il 1962 i 20 mila cantieri del piano hanno impegnato 102 milioni di giornate lavorative, corrispondenti a 40 mila lavoratori edili l’anno. Dei 17 mila architetti e ingegneri italiani attivi in quegli anni, un terzo è coinvolto nel piano. Numeri importanti che nascondono scelte e soluzioni ancor più interessanti. Perché dal nostro aereo in atterraggio si coglie così tanto la differenza tra città pubblica e città e se vogliamo, privata, il contrario dell’ideologia del mercato instillataci ormai da decenni?
Il piano Ina-Casa nasce da storie individuali e collettive di un’Italia in guerra: le storie di Amintore Fanfani e di Filiberto Guala, di Arnaldo Foschini e di Corrado Bozzoni, per non fermarsi che ai principali responsabili della legge e della sua attuazione. Ma anche le storie del cristianesimo sociale, del socialismo di impronta Fabiana, del comunitarismo olivettiano, del collettivismo comunista, per non citare che i più importanti movimenti di pensiero coinvolti nel dibattito che precede e accompagna l’approvazione della legge. La gestione decentrata dei progetti individua poi su un’ipotetica carta d’Italia, dove e come le diverse matrici hanno maggiormente influenzato le realizzazioni. Con, però, alcune radici comuni.
Pensare la città per quartieri non è certo un’idea originale. Nasce alla fine dell’Ottocento, ma si consolida, a partire soprattutto dalla Germania prenazista, attraverso l’esperienza che si chiamerà architettura razionalista. Al centro di quelle esperienze, come del Piano Ina, ci sono alcuni principi: la progettazione integrale di esterno ed interno, la centralità della distribuzione – che nasce dalle infinite discussioni sulla casa minima – l’importanza dell’integrazione tra casa e servizi per poter parlare di un abitare e non solo… di un posto per dormire, la centralità dello spazio pubblico, dei luoghi di incontro per realizzare davvero un’idea di cittadinanza e non solo di residenza. Idee tutte che si ritrovano, in maniera certo diseguale, nei progetti che l’ufficio, diretto sino al 1952 da Adalberto Libera, doveva insieme indirizzare con normative tipo e poi approvare. Idee che spiegano come al momento delle scelte dei responsabili del Piano, siano stati interpellati e cerchino di fare parte del gruppo che ne indirizzava gli esiti, personaggi forse inattesi come ad esempio Giò Ponti a Milano, Gabetti e Isola e Mollino a Torino, Quaroni a Matera e a Roma.
Quei quartieri oggi si distinguono nella città senza qualità che saturerà le distanze tra città costruita e quei quartieri, prima di inglobarli, perché il progetto politico e quello professionale avevano al centro un’idea di cittadinanza e di solidarietà. Il piano viene finanziato attraverso una trattenuta, alla fine dello 0,60 di tutti i lavoratori e dell’1,20 dei datori di lavoro, oltre che attraverso investimenti dello Stato. Una partecipazione universale a favore di chi meno aveva, che spiega molto del confluire in quel piano delle diverse radici solidariste che attraversano l’Italia del dopoguerra. Così la geografia del piano comprende oltre le grandi città, Modena, Ferrara, Mestre sino a realtà come Colleferro. Il Sud e le isole vedono, sull’intero quindicennio, investimenti che sfiorano il sessanta per cento di quelli del Nord.
Ma l’Ina-Casa è stata anche una grande occasione perduta di un riformismo keynesiano, come sottolineano i diversi inviati del governo di Harry Truman: è per altro sui fondi Erp che si fonda l’avvio finanziario del piano. In gioco poteva esserci una modernizzazione non solo tecnologica o costruttiva, se quel piano fosse stato accompagnato, come si discusse nel convegno dell’Istituto Nazionale di urbanistica di Venezia del 1952, almeno dalla completa applicazione della legge urbanistica del 1942 e da una sperimentazione progettuale, tecnica, ma anche degli appalti e della burocrazia più convinta. In realtà il piano assolse un’altra funzione sociale. Oltre che sollevare dalla miseria – l’inchiesta parlamentare del 1952 ne traccia un quadro sconfortante – consentì a milioni di contadini italiani di passare dai campi alle fabbriche, passando da un lavoro meno industriale e più artigianale, rendendo quel passaggio un po’ meno traumatico.
Perché oggi guardando dal finestrino del nostro aereo oltre che riconoscere quelle parti di città, ci pervade un senso di nostalgia? Quegli esperimenti ebbero ingenuità tali che già nel 1956 parte dei protagonisti, in primis gli architetti più colti, le mettevano in luce: l’idea, ad esempio, che bastasse simulare un ambiente – la casa rurale ha una tradizione fortissima nella discussione della cultura architettonica italiana dagli Anni Trenta in poi - per ricreare una socialità. La nostalgia nasce dal percepire che la forma urbana si realizza se lo spazio è pensato come bene comune, che il progetto funziona se ha basi condivise, che la città esiste se vi è un progetto di spazio pubblico. Ed è una nostalgia che ha molte, buone ragioni di turbarci.

“La Stampa” 20/02/2013 

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