29.3.13

Le verità di Fabrizio De André (Giovanni Vacca)

Di Giovanni Vacca, antropologo e etnomusicologo meridionale di valore, c’è già qualche pezzo in questo blog. Volevo qui trascrivere da un vecchio ritaglio di “alias” un suo bell’articolo occasionato da due libri su De Andrè, ottimo antidoto alla “canonizzazione” e omaggio a una grandezza che vive nella contraddizione e di contraddizione, ben diversa dal buonismo e anticonformismo all’acqua di rose tipico di commemorazioni alla Fazio. Ma di recente Vacca (cui invio sinceri auguri per i suoi intensi 50 anni) ha “postato” in pdf sul suo sito molti degli articoli scritti nell’ultimo decennio per il magazine del “manifesto” e, così facendo, mi ha semplificato la vita. Anche per questo arricchimento consiglio agli appassionati di “canzoni d’autore” e di musica popolare una visita al suo sito: sono certo che ne faranno più di una. (S.L.L.)
 

Quando Fabrizio De André morì, l'11 gennaio 1999, molti giornali e telegiornali aprirono con la notizia della sua scomparsa: l'artista genovese che per tutta la vita aveva cantato gli umili, i perdenti, le prostitute e i carcerati fu salutato da uomini politici e da opinionisti (in un processo di beatificazione che è poi proseguito nel tempo) come una sorta di padre della patria, un indimenticabile e delicato poeta che aveva messo in musica le ansie e le speranze di generazioni di italiani.
Non è chiaro se sia un corto circuito mediatico, o più verosimilmente una consapevole e sfacciata ipocrisia, a far sì che gli stessi media e gli stessi commentatori siano sempre pronti a sostenere aggressivamente tutto ciò che è esattamente il contrario di quello che De André ha detto nelle sue canzoni. Per esempio ironizzando su qualsiasi proposta di trasformazione sociale che non abbia una spendibilità concreta e immediata, o lanciando anatemi sulle attività terroristiche di «frange di anarco-insurrezionalisti» tutte le volte che sale il termometro della tensione sociale o ancora esponendo alla gogna televisiva ogni lavoratore dipendente sorpreso a bere un caffè in orario di servizio.
Colui che finanziava sistematicamente la stampa anarchica, che scrisse Il fannullone, e che cantò i moti del '68 è insomma, viene da costoro (e non stiamo parlando solo della parte spiccatamente conservatrice del paese ma anche di quel centrosinistra pragmatico e sempre attento a pericolose derive radicali), riportato periodicamente all'ordine e prosciugato con disinvoltura da fastidiose escrescenze sovversive.
A rimettere un po' le cose al loro giusto posto stanno pensando alcuni tra i molti libri usciti sul cantautore genovese dopo la sua morte: se è vero che si è forse ecceduto in quantità, è doveroso dire
che quasi tutti questi volumi, pur nel consueto tono elogiativo, presentano motivi di interesse, indagando ognuno un aspetto della complessa personalità di colui che è stato senza dubbio alcuno il più brillante cantautore italiano: chi la biografia, chi la religiosità, chi i singoli album, chi le sue ascendenze letterarie, chi la musica.
Tra i tanti, due sono particolarmente singolari: Fabrizio De André raccontato da Massimo Bubola, intervistato dal giornalista Massimo Cotto (Aliberti Editore), e Volammo davvero, a cura della Fondazione Fabrizio De André Onlus (Bur). Il primo ha il merito di dare la parola a un autore di valore che con De André ha composto due album interi e la saga di Don Raffaé: il libro è interessante perché nelle parole di Bubola vengono rivelate molte fonti e molti significati reconditi di alcune delle più belle e celebrate canzoni della seconda fase della vita artistica di De André (quella, come vedremo, segnata dall'impegno politico più diretto e esplicito). Il secondo, scritto a più voci (e curato dalla Fondazione De André che, come recita la copertina, «finalizza tutte le sue energie al no profit») ha il merito di raccogliere una serie di interventi che mirano a restituire la dimensione politica, e più propriamente anarchica, all'artista genovese pur non disconoscendo le mille suggestioni comprese nella sua opera, tra cui quella indiscutibilmente cristiana a cui molti riconducono quasi in toto l'essenza ultima della sua ispirazione.
È vero, infatti, che in De André è presente una matrice cristiana, e lo stesso cantautore non ha mai nascosto la sua ammirazione per il messaggio sociale di Gesù,ma è vero anche che la sua insistenza ossessiva sui diseredati, i ladri e gli emarginati, la solidarietà e la comprensione che egli mostra anche per le azioni più efferate dei suoi personaggi (e non si dimentichi la difesa dei suoi stessi carcerieri che egli fece una volta liberato dopo il sequestro che subì in Sardegna nel 1979 insieme alla futura moglie Dori Ghezzi) rivelano un'assimilazione profonda degli aspetti anche più estremi del pensiero politico anarchico, e questo non va taciuto e non va dimenticato: per Michail Bakunin, infatti, sono proprio i delinquenti, i derelitti, i carcerati, che avrebbero dovuto costituire, insieme alle masse contadine, una parte consistente della forza d'urto della rivoluzione, così come era avvenuto nell'insurrezione spagnola del 1873 a Cartagena sostenuta proprio dai seguaci di Bakunin quando, al fine di ottenere con una nuova costituzione la divisione della Spagna in cantoni indipendenti, il governo locale mise in libertà circa duemila forzati per ingrossare le fila dell'esercito di liberazione (fatto che fu poi duramente criticato da Friedrich Engels). E che Fabrizio De André abbia letto e amato la letteratura libertaria è cosa nota (nel cd Ed avevamo gli occhi troppo belli, pubblicato nel 2001 dalla rivista anarchica A, ad esempio, sono riprodotte alcune pagine di una storia dell'anarchia commentate e chiosate a matita dall'artista).
De André ha dunque avuto due anime: una atemporale e «cristiana», che risale soprattutto alla prima parte della sua produzione (dai primi anni Sessanta alla metà dei Settanta), l'altra più contingente e «politica», dall'album Storia di un impiegato (1973) in poi. Nelle canzoni del primo periodo, dove l'influenza del grande chansonnier francese Georges Brassens è più forte, prevalgono scenari medievali, figure simboliche sganciate da riferimenti precisi all'attualità o al massimo ispirati da qualche fatto di cronaca (Bocca di rosa, Miché, Marinella) e personaggi storici trasfigurati e proiettati nel mito (Carlo Martello, Giovanna D'Arco) che mirano a mostrare i vizi e le viltà del potere e le ragioni dei poveri, dei diseredati, degli oppressi. È in questo periodo che risalta maggiormente la «religiosità» di De André, il suo scetticismo per l'azione politica, la sua pietas incline al perdono e al gesto solidale immediato; ed è senz'altro questa la parte dell'opera di De André che piace di più all'establishment, quella che è più facile opacizzare e «recuperare». Nelle canzoni del secondo periodo, invece, pur non abbandonando del tutto il punto di vista precedente, il cantautore genovese sembra calarsi sempre di più nel paese reale, dalla riflessione sui fatti del '68 in Canzone del maggio agli scontri di piazza del '77 in Coda di lupo, dalla ripresa del brano di Francesco De Gregori Le storie di ieri, sul pericolo del neofascismo, fino a La domenica delle salme, incisa nel 1990 quando, con impressionante lucidità, seppe prevedere una nuova stagione di protesta dopo anni di conformismo e di riflusso, cosa che puntualmente avvenne di lì a poco con il movimento universitario della «Pantera» e l'esplosione del fenomeno dei centri sociali e della nuova canzone militante a ritmo di rap.
È evidente, insomma, che nei primi anni Settanta l'artista cambiò linea, sposando la causa del nuovo proletariato intellettuale urbano fatto di studenti, disadattati e precari prodotti dai processi di vorticosa mutazione che la società italiana stava all'epoca vivendo. E se a un primo momento questo potrebbe sembrare dovuto alla sempre più stretta collaborazione con altri autori (Giuseppe Bentivoglio, Massimo Bubola) è più probabile che De André abbia invece risentito delle critiche che molti gli rivolgevano per il suo isolamento da intellettuale chiuso in una torre d'avorio e abbia deciso, avrebbe detto qualcuno, di «scendere in campo». Poi, oltre al De André artista e militante anarchico, esiste il De André imprenditore, creatore di un lussuoso agriturismo per ricchi nei monti della Sardegna e protagonista di costosi concerti in teatro a prezzi inaccessibili non solo per gli umili e gli sconfitti che popolano le sue canzoni ma anche per un qualsiasi cassintegrato; ed esiste, infine, il De André dalle uscite poco felici: «ho pur sempre un'azienda agricola che va seguita perché non posso un domani dire ai miei figli 'vi saluto e vi lascio cinquanta canzoni per uno', perché nel mio repertorio non compaiono canzoni come Bianco Natale, vale a dire canzoni che dal punto di vista dei diritti d'autore riescono a rendere ricche due o tre generazioni». Ma tutto questo fa parte delle grandi contraddizioni dell'artista, alle quali, se un autore va giudicato per la sua opera, forse neanche bisogna pensare.

“alias – il manifesto”, 31 marzo 2007

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