17.3.13

Necrologi. Roland Barthes (Umberto Eco)

Roland Barthes
Ho sul tavolo l'ultimo libro di Roland Barthes (La chambre claire - Note sur la photographie). La dedica (Barthes ci teneva molto alle dediche) dice: « un piccolo segno di amicizia fedele ». Vado a rileggere la dedica a Critique et verité, con cui egli nel 1966 reagiva all'attacco frontale che, attraverso Picard, gli era stato mosso nel 1965 dall'establishment della Sorbona: ritrovo «en amitié fidèle». In una lettera, allora, mi spiegava che la piccola nota che mi aveva dedicato, non più di una citazione, forse a quel punto non ci entrava gran che: ma aveva voluto dedicare una nota a ciascuno dei suoi fedeli amici, come per fare quadrato. L' espressione «in amicizia fedele» ricorre in ogni sua dedica, e per il resto sono variazioni retoriche sulla marginalità del suo contributo: «queste gamme semiologiche» per il Sistema della moda; «un testo quasi aperto (studi su questo quasi) » per S/Z; «questo esercizio di semantica trascendentale » per Sade, Fourier, Loyola; «dal suo vecchio complice in semiologia », per Il piacere del testo; « un piccolo segno d'amicizia extrasemiologica » per Barthes par Roland Barthes; «questo libro assai marginale» per i Frammenti di un discorso amoroso; «una semiologia assai vagabonda» per la Leçon; e così via, tutte litoti, come per dire « io non sono un gran teorico, un gran filosofo, io mi diverto »... Ma sempre, in chiusura, l'amicizia fedele.
Su questa amicizia fedele devo fare una precisazione: benché l'espressione sia ambigua, e Barthes stesso abbia affermato che quando l'autore risulta ambiguo è perché ha voluto esserlo, sono del tutto convinto che con questa espressione Barthes non voleva affatto dire « io ti sono amico fedele ». Che banalità, che formula trita. Egli voleva dire: « tu mi sei amico fedele, fedele a me », ovvero, cercava una rassicurazione: « assicurami, leggendomi, che mi sei amico fedele ». Questa non è più una banalità, né un gesto di buona educazione o un tratto di etichetta accademica o letteraria. E' un frammento di uno dei suoi tanti discorsi amorosi (ogni libro che ha scritto è stato un discorso d'amore): una disperata, egoistica, tenera richiesta di vicinanza. Barthes era stato abbandonato, e nel modo più pieno, nel senso che pensava di averle perdute sin dall'inizio, da tre figliolanze.
La prima, la figliolanza carnale. Barthes era scapolo. Non voglio spendere una parola sul fatto che fosse omosessuale. Chi legga i Frammenti di un discorso amoroso senza sapere che l'Altro che lui nomina di continuo è un uomo, non se ne accorge, e se è eterosessuale pensa a tutte le donne della sua vita: e questa è grandezza, l’espressione sarà trita, ma è capacità di rendere universale il proprio sentimento. Prima di lui c'era riuscito Proust, non Gide. Basta questo a rendere uno scrittore rispettabile (vedremo - dopo perché insisto su «scrittore»). Ma Barthes era scapolo, visceralmente attaccato alla madre, morta qualche anno fa, e dopo si era sentito solo. Diciamo pure socialmente solo, perché era di quegli omosessuali che non vogliono o non sanno ostentare in pubblico i loro affetti. In ogni caso, non aveva figli a cui dire « tutto questo un giorno sarà tuo ».
La seconda, la figliolanza accademica. Un professore ha dei discepoli. Per stupidi che siano, diffondono il Verbo del maestro, applicano le sue formule ad altre indagini. Ma ditemi voi come si può fare a essere barthiani o barthesiani. Si può essere lévistraussiani, si può essere greimasiani, si può essere chomskyani, si può essere persino (benché la cosa sia ora dubbia) lacaniani. Ma essere «come Barthes » sa di caricatura. Barthes non ha inventato formule applicabili: ha offerto lo spettacolo di un'intelligenza e di una sensibilità in esercizio. Come teorico è stato il primo a rinnegarsi. Si può essere teoricamente poveri ed essere un genio: ma chi sono i discepoli di un genio? Barthes poteva avere degli amici, non dei continuatori del Verbo. Si può essere astrattisti, cubisti, futuristi, non si può essere picassiani. Il vero discepolo spirituale di Picasso, se esiste, dipingerà in un modo che non ricorda affatto Picasso. Non sappiamo chi è. Non lo sapeva neppure
Picasso. Barthes non lo sapeva. Era solo.
Gli mancava, o almeno lui credeva che gli mancasse, una terza figliolanza. Aveva una strana deformazione (rileggetevi i suoi scritti, e ve ne renderete conto). Pensava che esistessero due forme di scrittura: una parassitairia, quella del critico e del filosofo, l'altra creativa, quella dello «scrittore», non necessariamente del romanziere, ma dello scrittore che crea. Ha vissuto tutta la sua vita pensando di essere solo un critico e un filosofo, e cercando di arrivare alla «scrittura». Non poteva rassegnarsi a scrivere, come il suo Balzac: «era una mattina di gennaio e la marchesa uscì di casa per recarsi al Bois de Boulogne», perché glielo aveva proibito Valéry, e l'avanguardia del nostro secolo ha ormai strane sindromi senili. Le ha tentate tutte, l'autobiografia, i frammenti, l'ipotesi di un romanzo futuro, non so... Non si è mai accorto (non ha dato mai segno esteriore di essersene accorto) che egli aveva già «scritto», che egli era un grande scrittore creativo, che ogni pagina che aveva scritto su Michelet, sulla Citroen, su Balzac o su Sade era già scrittura creativa, e che nelle antologie future, anche quando le sue conclusioni critiche saranno discusse, queste pagine saranno registrate come grandi esempi «classici» di letteratura francese. Che ci importa se Balzac era davvero come lui ha detto, leggeremo quelle pagine come testimonianze creative della intelligenza Barthes in funzione, e del modo in cui sapeva rendere trasparente attraverso il linguaggio la sua intelligenza delle cose, o delle scritture altrui.
Ma Barthes non lo sapeva o non voleva saperlo. (E si rattristava, proprio mentre arrivava al sommo della gloria. Si rattristava anche perché due arguti giornalisti scrivevano un pamphlet sul suo stile (che poi era una satira dei cattivi barthesiani). In un tetro bar del Greenwieh Viilage, testimone Susan Sontag, ha giurato di non aver neppure letto quel libello (che pure ha qualche arguzia). E noi a dirgli: ma è segno della tua celebrità, che ti importa? No, lui soffriva come una bestia ferita, e so perché: il timore di essere etichettato come l'inventore di una maniera, non come scrittore.
Chiedo scusa, parlo di un uomo. Il lettore forse cerca più precisazioni. Non dico il lettore che domanda «ma chi era Roland Barthes?». Repubblica ha molte pagine, perché leggere quella culturale? Forse che la pagina dei titoli azionari vi spiega cosa sia «Acqua Marcia»? Ma penso al lettore che mi dice: «va bene, so che era un autore importante, ma fammi una sintesi, dimmi cosa devo leggere». A costui devo un servizio. E gli dirò allora di entrare in libreria o in biblioteca e di cercare un Roland Barthes a caso. Troverà, in esercizio attivo, una mente che vede cose, là dove gli altri non le avevano viste. Una volta Barthes disse: essere semiologo è avere un fiuto. Andare per strada e accorgersi di colpo che gli uomini e le donne usano bottoni, ma gli uomini abbottonano da sinistra a destra e le donne all'opposto. C'è un senso in questa opposizione. E quale è? Barthes, sia che leggesse un classico come Racine o che guardasse una partita di catch, si accorgeva che c'erano cose che avevano un senso. Non m'importa nulla che certe volte si sia sbagliato. Ma per questa sua capacità è stato un maestro per tutti noi. Chi sono «noi»? Tutti coloro che trovano un senso nelle pagine in cui Barthes individua un senso. Gli altri, al diavolo.
Ma la semiologia, o semiotica che dir si voglia, Barthes non è stato colui che eccetera eccetera? Rimando alle dediche di cui sopra. Non gliene importava nulla, e quando il Collège de France gli ha dato una cattedra (prestigiosissima) di Semiologia Letteraria, l'ha usata per dire che la sua materia non esisteva. Se volete trovare una definizione delle discipline accademiche andate a leggervi la Gazzetta Ufficiale che bandisce i prossimi concorsi a cattedra. Da un punto di vista scientifico è tutta una farsa. Altrimenti leggetevi Barthes. Anche ammettendo che tutto quello che lui ha scritto sulla semiologia fosse discutibile, se lui non avesse osato sbagliare (e discutersi), noi non saremmo qui a parlare di semiologia. Grazie Roland, en amitié fidèle.

“la Repubblica”, 27 marzo 1980

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