26.3.13

Nuova Cina. Confucio e la ricerca dell'armonia (Mario Perniola)

Bersaglio critico della modernizzazione novecentesca e in particolare della Rivoluzione culturale, il vecchio maestro vissuto duemilacinquecento anni fa è al centro di un vero e proprio revival in tutto il mondo ma soprattutto in Cina, dove non si contano i testi a lui dedicati. Un'attenzione che testimonia il tentativo di ricucire profonde fratture sociali
Nel breve periodo dei due ultimi anni sono usciti in francese e in inglese almeno una ventina di libri su Confucio e specialmente sul neoconfucianesimo. L'Occidente recepisce così con molto ritardo una tendenza che si è manifestata in Cina ai primi degli anni Ottanta come reazione alla Rivoluzione culturale, e che è cresciuta enormemente nei decenni successivi anche con la creazione dei «Centri Confucio», sparsi in tutto il mondo e sempre più numerosi (presto dovrebbero superare il centinaio). Difficile è orientarsi in una produzione così vasta, non solo per la barriera linguistica: nel corso degli ultimi dieci anni in Cina sono usciti su Confucio almeno trecento libri e più di diecimila saggi pubblicati su riviste!

Conoscenza asimmetrica
Si può dire che oggi Confucio è considerato come il pilastro della cultura cinese, il punto di riferimento indispensabile per affermare la sua identità nazionale. Infatti, la Cina si sente come un gigante economico, che si accorge di essere diventato, in seguito alla globalizzazione, un nano culturale: basti pensare che nel Novecento sono state tradotti in cinese 1.068.000 libri scritti in lingue europee (compreso il nostro Vico e molti altri autori italiani), contro solo tremila titoli cinesi tradotti in lingue europee nelle ultime centinaia di anni! Non vi è dubbio che i cinesi ci conoscono infinitamente meglio di quanto noi conosciamo loro.
Un primo orientamento su questa materia è fornito dal volume collettivo La pensée en Chine aujourd'hui (Paris, Gallimard) curato da Anne Cheng, l'autrice della fondamentale Storia del pensiero cinese (due volumi, Torino, Einaudi, 2000), testo il cui studio è imprescindibile per chiunque voglia parlare della cultura cinese con una minima conoscenza di causa. Il nuovo libro, curato dalla Cheng, di quasi cinquecento pagine, fitto di note che rimandano direttamente alle fonti cinesi, è articolato in tre parti: la prima riguarda il complesso rapporto tra gli intellettuali cinesi di oggi con la loro plurimillenaria tradizione, mentre la seconda esamina tre aspetti assai controversi della cultura cinese (la filosofia, la religione e la medicina tradizionale) e la terza affronta le questioni di identità connesse alla scrittura, alla lingua, alla mentalità, alla scienza.
Due sono le grandi problematiche che dominano negli ultimi trent'anni la scena culturale cinese: il problema della modernizzazione e la rilettura del passato. Esse non sono nuove. Se la prima risale alla seconda metà dell'Ottocento e sorge nel momento in cui i cinesi sono costretti ad ammettere che il loro paese non è il centro del mondo, ma una nazione come le altre, la seconda rappresenta invece una costante della storia della Cina, a partire dal passaggio dai tempi mitici a quelli storici duemilacinquecento anni fa. Relativamente nuove sono invece l'urgenza e la difficoltà di trovare una strada che riesca a conciliare la tradizione con l'innovazione. Molti cinesi nei primi anni del Novecento videro nel Giappone il modello sociopolitico e culturale che avrebbe consentito al loro paese di uscire dall'arretratezza e dal sottosviluppo senza scosse drammatiche. Tuttavia il modello giapponese, basato sulla coesistenza e giustapposizione del vecchio e del nuovo, del passato e del presente, non riuscì ad affermarsi. Nel 1911 il millenario impero cinese crollò, e il Movimento del 4 maggio 1919 fece proprio lo slogan «Abbasso la bottega di Confucio!». L'occidentalizzazione del paese avvenne attraverso il marxismo.
La Rivoluzione culturale, promossa da Mao nel 1966 e condotta all'insegna del progetto di «spazzare via i quattro vecchiumi» (vecchie idee, cultura, abitudini e comportamenti) fu violentemente anti-confuciana. Gli intellettuali furono definiti la «nona categoria puzzolente» e in Cina, come in tante altre parti del mondo, avvenne una frattura generazionale di proporzioni estremamente rilevanti.

Le febbri culturali
Ciononostante il confucianesimo (parola occidentale che traduce i termini cinesi ruxue, rujia e anche rujiao, i quali indicano con varie sfumature la cultura dei ru, cioè dei letterati) non scomparve nel corso del Novecento, la cui storia culturale non può prescindere dall'esistenza di ben quattro generazioni di pensatori neo-confuciani: la prima rappresentata da Liang Shuming, che rimase in Cina e vide la propria biblioteca bruciata dalle guardie rosse, la seconda e la terza appartenenti alla diaspora cinese a Taiwan, Hong-Kong e negli Stati Uniti. In questi ultimi anni si sta delineando una quarta generazione neo-confuciana anche in relazione con i Cultural Studies e all'interrogativo intorno ai caratteri specifici della «cinesità» (sinité). Infatti alla «febbre culturale» (wenhuare) degli anni Ottanta è seguita una seconda fase, la cosiddetta «febbre degli studi nazionali» (guoxuere), nella quale le ricerche sul confucianesimo hanno trovato un nuovo straordinario slancio. In particolare l'anno 1999 e l'anno 2004 (supposti anniversari della nascita di Confucio) hanno visto uno fiorire di studi e di iniziative editoriali di grande respiro. Why Confucius now? si chiede William Theodore de Bary, Provost Emeritus della Columbia University.
L'impressione che si riporta dalla lettura dalla recentissima letteratura francese ed americana sul pensiero cinese (la quale ha raggiunto un grado di raffinatezza filologica ed ermeneutica molto elevato) è che il problema della modernizzazione, cioè del nuovo come migliore del vecchio, resta irrisolto: le tre principali opzioni - il nazionalismo, il marxismo e il pragmatismo - continuano a combattersi o a collegarsi in modo incongruo, senza che si riesca a capire chi riuscirà vincitore.
La questione della modernizzazione è strettamente connessa a quella della rilettura del passato, non solo per quanto riguarda la rivalutazione di pensatori ignorati alla loro epoca, come il grande filosofo della storia Wang Fuzhi (1619-1692), cui è dedicato il primo capitolo del libro della Cheng, ma anche per il giudizio su questioni assolutamente centrali, come la valutazione dell'ultima dinastia imperiale (quella Manciù dei Qing), il carattere fonico o ideografico della scrittura cinese, il significato dell'invenzione della religione (e delle nuove religioni) nella Cina del Novecento, la compatibilità tra la scienza occidentale e la medicina tradizionale cinese, la permanente tensione tra ritualismo e legismo (che risale all'antichità e segna tutta la storia della Cina) e tra ritualismo e moralismo (che è una conseguenza dell'influenza del protestantesimo), il rapporto tra la madre patria e la diaspora cinese, il dibattito sui «valori asiatici» opposti all'immoralismo e al nichilismo occidentale.
Tra tante teorie opposte sul presente e sul passato, si capisce meglio come la preoccupazione principale dei dirigenti cinesi sia quella di mantenere unito un paese di un miliardo e trecentomilioni di abitanti che ha al suo interno minoranze appartenenti ad altre lingue, tradizioni e culture. Ora l'icona di Confucio rappresenta questo collante, anche se essa indica cose che a un occhio occidentale paiono non solo diverse, ma opposte e inconciliabili tra loro.




Antiche lezioni per nuovi strumenti di «governance»- Silvia Calamandrei

- Silvia Calamandrei
Qualche tempo fa (13 dicembre 2008) un elzeviro di Pierluigi Panza nelle pagine culturali del «Corriere della sera» irrideva all'iniziativa del movimento universitario che a Milano aveva organizzato un seminario di filosofia sul pensiero cinese. Chiedendosi se questi fossero i suggerimenti dell'Onda «per la costruzione dell' università del futuro», Panza proseguiva: «Il futuro sta in un paese di sinologi? Quanti sinologi serviranno in Italia nei prossimi dieci anni? Cinque, dieci, venti, trenta, trentasei, quarantatré, come canta Figaro in apertura delle Nozze? Oppure, rovesciando i termini del problema: se agli studenti va bene studiare il Taoismo, poi perché si lamentano se l' università non dà sbocchi? O pensano che possono studiare quel che vogliono, poniamo sinologia, e lo Stato poi li deve assumere come sinologi, pagandoli (bene) con i soldi presi dalle tasse e tolti, che so, a ospedali, asili, ricoveri per anziani?». Ora, è curioso che un quotidiano avveduto come il Corsera non si renda conto che nella globalizzazione la conoscenza del pensiero cinese ha un peso, e non solo per pochi sinologi (di cui l'Italia fa sempre difetto rispetto ad altri paesi europei), e che molti bestseller di management in Cina si sono ispirati ai classici del pensiero asiatico. Clamoroso fra l'altro il caso del manuale sui Dialoghi di Confucio della studiosa Yu Dan, animatrice anche di un popolare programma televisivo che illustra i benefici dei valori confuciani per la vita quotidiana; tanto il suo successo, che l'Economist ne ha parlato ampiamente, e Daniel Bell, docente di filosofia politica all'Università Tsinghua di Pechino, ha analizzato il libro in China's New Confucianism (Princeton University Press 2008).
Sicuramente Panza non consiglierebbe la lettura del Confucio di Annping Chin (Laterza 2008), una scorrevole biografia che mette il lettore a contatto con la vita di un saggio di 2500 anni fa le cui parole continuano a essere fonte di ispirazione e oggetto di interpretazione. Il titolo inglese, The Authentic Confucius. A life of Thought and Politics, esplicita le intenzioni della storica, che si pone in competizione con l'antico biografo Sima Qian, il quale ricostruì a cinquecento anni di distanza la vita del personaggio. Duemila anni dopo, questo nuovo testo intende rendere giustizia a un saggio tornato in voga nella Cina d'oggi, dopo essere stato bersaglio della modernizzazione novecentesca. Professoressa a Yale, Annping Chin, di origine taiwanese, è la moglie del grande sinologo Jonathan Spence, i cui libri di storia della Cina e dei suoi passaggi cruciali verso la modenità si leggono come romanzi: questa biografia si colloca in tale filone, con un surplus di simpatia verso il personaggio e i suoi discepoli, tanto che l'autrice sembra averli frequentati di persona e aver partecipato ai loro dialoghi.
Per il lettore italiano è un'ottima familiarizzazione alla lettura dei Dialoghi, più volte ristampati in edizione economica, anche col testo cinese a fronte (Einaudi e Bur) e un'introduzione a classici del pensiero confuciano, autorizzato di nuovo allo studio filologico a partire dagli anni '80, nella Cina delle riforme. Rovesciando la condanna culminata nella Rivoluzione culturale, Confucio è assurto a riferimento della leadership cinese nella teorizzazione della Grande Armonia da perseguire con i nuovi programmi di sviluppo e nella denominazione scelta a partire dal 2004 per gli istituti di lingua e cultura cinese all'estero: come la Germania ha i suoi istituti Goethe, la Cina ha i suoi istituti Confucio, e Hu Jintao e Wen Jiabao, rispettivamente presidente e primo ministro, attingono alla terminologia confuciana dell'armonia, della pietà filiale e della benevolenza.
Per capire dove va la Cina occorre comprenderne le correnti ideali (come già sapeva il gesuita Matteo Ricci), e di certo il revival del confucianesimo ha corrisposto alla necessità di reperire nella tradizione nazionale strumenti di governance elaborati nella fase di crisi acuta della società tradizionale della Cina del V secolo a.C., una situazione di anarchia feudale in cui il ruolo del consigliere politico era quello di elaborare una strategia di mantenimento gerarchizzato dell'armonia sociale. Ed è da rilevare (come ha documentato Angela Pascucci sul «manifesto»), che anche altri filoni del pensiero alimentano il dibattito tra gli intellettuali cinesi, rivisitando la tradizione del Movimento del «4 maggio» e la figura di Lu Xun, da collocare sul versante anti-confuciano. Basterà il collante dell'armonia confuciana a ricucire le incrinature della società approfondite dalla crisi mondiale?

"il manifesto", 22 gennaio 2009

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