13.3.13

Paleopatologia. Coliche, artrosi e colpi di lancia nella Grecia antica (Andrea de Arcangelis)

L’articolo che segue, pieno di notizie almeno in parte sorprendenti, è una recensione apparsa sul “manifesto”. Il ritaglio onde l’ho ripreso manca di data, ma l’anno è certamente il 1985, lo stesso di edizione del libro di Mirko D. Grmek, tradotto da Rosanna Albertini, di cui si tratta. (S.L.L.)
«Si muore, nell'Iliade, cadendo in avanti, o indietro; rigidi o afflosciati, rotolando o gridando, ma sempre in modo conforme a quel che avrebbe predetto un medico legale moderno, tenendo conto del genere e della localizzazione delle lesioni». Gli eroi dell'epica greca finiscono sul tavolo dell'obitorio, ma non per una discutibile curiosità. Si tratta di scrivere le prime pagine di una storia de Le malattie all'alba della civiltà occidentale. Così si intitola il voluminoso lavoro di Mirko D. Grmek, appena tradotto in italiano dal Mulino.
Il medico prende in mano i testi della letteratura classica e ogni indizio diventa buono per congetturare. Esiste inoltre una disciplina che si chiama paleopatologia. Le sue fonti sono soprattutto i resti umani, ma anche materiali fittili, come le statuette o le figure votive degli organi. Questi resti dicono poco se considerati come casi isolati, ma per sequenze e insiemi, con l'aiuto dell'antropologia e della paleodemografia, possono trasmettere una mole considerevole di informazioni. Grmek, dunque, mettendo in comunicazione l'aneddotica storico-letteraria con l'indagine statistica e l'analisi medica dei reperti, comincia a ricostruire le malattie e le cause di morte che affliggevano i cittadini della Grecia classica.
Nella Grecia del V secolo avanti Cristo la mortalità media era per gli uomini di 41 anni e per le donne di 36 (essendo il parto più micidiale della guerra). Si scopre poi che tra le armi, la lancia era la più micidiale: uccideva 59 persone su 67 che colpiva, oppure che il supposto cranio di Sofocle, se fosse capitato nelle mani dei colleghi di Lombroso sarebbe stato attribuito a un individuo con predisposizioni criminali (presenta infatti alterazioni registrate dal Virchow) ; che gli aristocratici di Micene soffrivano di coliche di fegato e che il poeta Menandro era strabico.
Nelle diverse ipotesi che Grmek formula intorno alle patologie più complesse ( morbo di Paget, morbo di Behcet, ecc.) il discorso si fa difficile per i non addetti ai lavori, ma in generale le malattie di cui scrive la storia sono quelle di più generale conoscenza: le malattie infettive, l'artrosi, che non sembra risparmiare neanche il neolitico, il mal di denti, che già affliggeva il Sinantropo di Lantian 450.000 anni prima di Cristo, la gotta di cui soffriva Gerone di Siracusa, la sifilide, di cui non vi è alcuna traccia nell'antichità, e che pare ci abbia regalato Colombo, la lebbra e la tisi di cui, al contrario, noi europei siamo stati i primi importatori nelle Americhe. La tubercolosi, in particolare, occupa un intero capitolo, dovuto alla sua antichità e gravità: ne soffrivano già l'uomo di Heidelberg e il sacerdote Nesperchan (XXI dinastia).
Per ovvie ragioni (la minore deperibilità delle ossa rispetto ad altre parti del corpo umano) sono le malattie osteoarticolari, traumatiche e non, quelle di cui sappiamo di più. La osteoarcheologia può avvalersi di tecniche modernissime come la microradiologia. Vi è inolte una parte cospicua del Corpus hippocraticum, dedicata all'ortopedia, arte in cui i medici greci erano maestri. Ne è un esempio la perfetta riduzione di una frattura al braccio eseguita sul corpo di una donna di estrazione aristocratica in epoca micenea. Ma ci sono anche dei misteri: perché alcuni scheletri coevi rinvenuti in sepolture povere appartenute a individui di rango inferiore presentano fratture agli arti superiori consolidate, il più delle volte, in posizioni anomale?
Sono questi alcuni esempi di quanto emerge nel dialogo tra archeologia e medicina, in un'ottica, quella della storia della malattia, diversa dalla più tradizionale storia della medicina. Grmek si avvale di un metodo di analisi (che egli chiama patocinesi) che esamina la patologia di un dato periodo storico in senso orizzontale, affrontando cioè un meticoloso studio della frequenza e distribuzione delle malattie nel mondo mediterraneo antico. Questo permette di ricavare le relazioni sincrone, cioè la simbiosi, l'antagonismo o l'indifferenza delle varie forme morbose fra loro in una determinata popolazione, in rapporto con il pool genetico, l'ecologia, il quadro geografico, i livelli di urbanizzazione.
Fino a oggi gli studi paleopatologici si dedicavano all'analisi comparata di vari gruppi di malattie simili, ipotizzando diagnosi sulla base delle descrizioni incontrate nei testi antichi. L'impostazione scelta da Grmek permette anche di ricavare un indice di probabilità sulla scelta della patologia da attribuire ai sintomi descritti nei testi antichi o suggeriti dai reperti archeologici.
L'obiettivo è quello di applicare questo metodo ad aree sempre più vaste, avvalendosi di tecniche sempre più moderne, per esempio, nel campo della paleoimmunologia. Con magari anche il desiderio di ritrovarsi tra le mani il teschio di Pericle, che nella statuaria classica è rappresentato sempre con l'elmo e che gli scrittori contemporanei chiamavano «testa di cipolla».
Una malattia, nella storia, non ha sempre la stessa incidenza. A volte la sua stessa caratterizzazione di malattia può essere introdotta o smentita da fattori storici. Prendiamo l'esempio del diabete. Antico quanto l'uomo come deviazione ereditaria, il diabete ha cominciato a manifestarsi come patologia solo con l'avvento dell'apicultura, esplodendo come vera e propria malattia solo a un certo momento delle sviluppo economico e sociale e solo in alcuni strati della popolazione. Quasi sconosciuto ai tempi di Ippocrate, è descritto da medici di età imperiale (Areteo, Celso. Galeno) come una malattia grave. Vi è una teoria (la teoria del genotipo frugale di Neel) secondo la quale i portatori di questo «difetto» ereditario sarebbero più resistenti dei «normali» in condizioni primitive di vita. Questo fatto conferisce loro una capacità maggiore di sopravvivenza e induce nel corso delle generazioni una selezione a loro vantaggio. Nel 1969 uno studio condotto sugli indiani Navajo di Rimoin constatava l'altissima incidenza di diabete (oltre il 60 per cento) in alcune tribù di indiani d'America che vivono nelle riserve. La malattia era praticamente sconosciuta quando vivevano liberi, ma a dieta ipocalorica.

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