25.3.13

Zola. Lo sguardo acuto e la fantasia pesante (Enzo Di Mauro)

Prendendo a pretesto la recensione dell’ultimo romanzo dei Rougon-Macquart, nel testo che segue, del 2000, Di Mauro costruisce un profilo assolutamente convincente di uno scrittore impegnato, quasi eroico, che ci consegna questioni tuttora irrisolte. (S.L.L.)
Émile Zola
Malgrado alcuni necrologi novecenteschi, anche autorevoli e comunque degni di ogni attenzione, e tantissime pratiche letterarie condotte in direzione opposta e contraria, resta tuttavia incisa a lettere incancellabili la valutazione, insieme netta ed equilibrata, che in Mimesis ha espresso Erich Auerbach e che qui vale la pena di ricordare nel suo principale assunto: «Zola ha preso sul serio l'idea dello stile mescolato, ha superato il realismo puramente estetico della generazione precedente, è uno dei pochissimi scrittori del secolo che abbiano tratto la loro opera dai grandi problemi del tempo. In tal senso è comparabile solo a Balzac». E questo - così continuava lo studioso tedesco dal suo esilio volontario a Istanbul in quelle pagine che restano una tra le più strenue e commoventi difese della cultura e della tradizione europee minacciate dal nazismo - benché appaia assai evidente un dato, ossia «che la fantasia un po' grossolana e violenta l'abbia condotto a esagerazioni, a semplificazioni brutali».
È un giudizio - a volerlo ridurre a formula - che coincide con quello di André Gide, uno scrittore che non aveva alcun debito visibile nei confronti di Émile Zola, quando annota nel suo Journal, in un empito di ammirazione, come in quei romanzi i difetti siano al dunque inseparabili dalle qualità e come, nella sostanza, seppure vi manchino in dosi persino massicce delicatezza e sottigliezza, immutata resti la loro forza d'impatto e sconcertante l'acutezza dello sguardo che non si distoglie mai dall'oggetto, simile a un aquila che, puntando la preda e in volo precipitando non la perde di vista, quasi assaporandone il gusto del sangue e l’imminente macelleria.
Che si trattasse dello scenario istituzionale e politico sotto il Secondo Impero o dei vizi della borghesia francese; della nascita di una finanza speculativa mai così rapace e spietata o della classe operaia che stava nascendo nei modi e nelle forme che noi abbiamo poi conosciuto e ancora ricordiamo; delle nuove forme di sfruttamento o della trasformazione delle periferie urbane; della vita quotidiana in un caseggiato popolare o del brulicante traffico di merci ai mercati generali di Parigi; del flusso assordante della folla o degli arredi una camera da letto, ecco, in ogni caso Zola ne afferra la dinamica, il dettaglio, l'incastro, lo spessore, la fessura o la piega, e le macina, le vomita, ne mostra la misera sostanza ridotta a nulla, le fetide ulcerazioni, insomma le molecole abbiette e infette. Il fatto è che nessuno, più di Zola, ha voluto cantare l'antifona aspra e stridente del naturalismo e, per conseguenza, nessuno ha pagato un scotto salatissimo e addirittura sproporzionato a quella poetica quanto lui. D'altronde, non poteva che essere così.
Si può dire che è stata precisamente la fedeltà alla scuola e al metodo - di cui fu il messia e insieme il pontefice massimo - il peccato suo più eclatante. È dalla qualità di tale obbedienza, ovvero di tale missione e sottomissione, che i difetti si dipartono, prendono forma, si fanno di necessità e per paradosso insostituibili. A fame le spese sono i personaggi, cioè gli uomini e le donne che popolano da protagonisti i venti romanzi del ciclo I Rougon-Macquart, composto di gran carriera tra il 1869 e il 1893 e a cui fu affidato il compito di sezionare il mondo, come su un tavolo anatomico, alla luce di quel credo e in forza di quei bisturi militanti, taglienti di furore politico.
Quel ciclo sulla «storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero» - che avrebbe voluto essere una lunga teoria di «casi clinici» - si era aperto con La fortuna dei Rougon e si concluse con Il dottor Pascal (Medusa, traduzione di Edi Pasini e di Mario Porro, postfazione di Mario Porro, pp. 333, € 22,00), datato appunto 1893 e assente dalle librerie italiane da un secolo, ossia dal 1909, quando fu stampato dai fratelli Treves. Dunque, in pratica, una novità per noi lettori che tuttavia non facciamo fatica a individuare le ragioni di tanto oblio, di tanta colossale sfortuna editoriale. Zola, a quel momento e anche per stanchezza, sentì di dover sigillare la sua impresa con un testo fortemente ideologico, pressoché riassuntivo. Qui il laboratorio - o, come viene chiamato, «la camera del diavolo» - non è solo alluso o allegorizzato. Lo sferragliare di attrezzi, il tintinnare di alambicchi, il battito sordo del mortaio sono la musica costante del libro a inesorabilmente scandire gesti e pensieri e azioni dei due personaggi principali, ossia il dottor Pascal - il vecchio medico, lo scienziato, il libero pensatore, lo smascheratore di imposture, l'eretico - e sua nipote Clotilde - giovane donna non ancora trentenne, esempio di devozione verso quello che lei chiama maestro, sensibile, sentimentale, punta dall'idea del mistero e del divino. Si tratta, com'è ovvio, di due tesi, di due vessilli, di due magnetofoni (finiranno, detto tra parentesi, per sposarsi: e sarà stata la loro posizione incestuosa a scandalizzare i lettori del tempo)…
Il «tetano nello stile» (l'espressione, felicissima, è di Taine) che Zola aveva mostrato nel terribile, insopportabile affresco di Germinal (1885) o nel caricato e sovrabbondante L'Assommoir (1876) o pesino nel fragoroso Ventre di Parigi (1873), quello stile, dunque, qui lascia il posto soltanto al discorso sul metodo. Niente gli sfugge di mano, nulla lo tradisce; e allora quell'aspetto (diciamo così) pesante della sua fantasia rimane il padrone assoluto della pagina; ed è assente quel caratteristico ronzio ipnotico in grado di indurre un effetto appunto ipnotico e allucinatorio. Si tratta di quella musica - solo sua - che non manca nemmeno nei preziosi Taccuini (pubblicati vent'anni fa da Bollati Boringhieri per le cure di Henri Mitterand, il più rilevante studioso dello scrittore), straordinaria galleria della strumentazione documentaria di Zola.
Resta da dire che Il dottor Pascal ha un enorme valore di testimonianza. Era il tassello mancante - e poi l'ultimo - di un'impresa titanica che non poteva non contemplare esiti altissimi ed eclatanti fallimenti. Ma, se sono giuste le parole di Auerbach e di Gide e, a seguire, le innovative letture di Barthes, Deleuze, Serres, Butor, allora quella di Zola è una traiettoria ancora in atto, una questione tutt'altro che risolta.

“alias – il manifesto”, 26 luglio 2008

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