8.4.13

Cirese. Un professore a scuola dai cafoni (di Antonio Fanelli)

Contadini molisani
Quello che segue è il necrologio sul “manifesto” di Alberto Mario Cirese, uno studioso e un socialista di cui sarebbe utile tener vivo il ricordo. (S.L.L.)
Alberto Mario Cirese al calcolatore
Alberto Mario Cirese amava dire che l'unico modo per onorare uno studioso è studiarne l'opera. Ed è per questo che sarebbe stato sicuramente lieto, più di qualsiasi ulteriore carica o titolo, di un'attenzione per i propri scritti proiettata verso le nuove generazioni. Il decano dell'antropologia culturale italiana si è spento ieri a 90 anni e lascia una mole imponente di lavoro testimoniata dalla ricca bibliografia edita da Olschki nel 2011 e curata da Eugenio Testa. Una complessa e variegata opera che, oltre a migliaia di articoli e decine di monografie (tradotte in inglese, francese, spagnolo, tedesco, croato) include anche il suo fondamentale lavoro di traduzione e presentazione al pubblico italiano di alcuni scritti di Claude Lévi-Strauss. L'anziano studioso, dopo una lunga carriera accademica come docente di Antropologia culturale (professore emerito alla «Sapienza» di Roma) era diventato anche un blogger.
Il sito www.amcirese.it  era il suo archivio in rete, con libera fruizione di molti dei suoi articoli e saggi scientifici e anche alcuni inediti. Una grande lezione di metodo e di etica del lavoro culturale, una formidabile capacità di adattare alle tecnologie moderne il suo profondo amore per lo studio. Una passione coltivata sin da ragazzo in famiglia, grazie al padre, il poeta molisano Eugenio Cirese. Il computer (che lui chiamava «calcolatore») aveva iniziato a usarlo quando tale strumento era grande come una stanza e riusciva a fare una operazione alla volta. Siamo nei primi anni '60 e Cirese cercava dei modelli formali e logico-informatici da applicare alle tradizioni popolari (novelle, fiabe, canti, etc.), un tema che sarà anche al centro del suo ultimo prezioso libro: Altri sé (Sellerio, 2010).
Era nato ad Avezzano nel 1921 e si era laureato nel 1944 a Roma in Storia delle tradizioni popolari. È stato per lunghi anni docente all'Università di Cagliari e poi a Siena e infine a Roma. Il suo manuale di antropologia di impronta gramsciana Cultura egemonica e culture subalterne (Palumbo, 1973) ha rappresentato per alcuni decenni il testo guida per tutti i ricercatori e gli studenti dell'università italiana, superando le concezioni romantiche e positiviste del folklore in nome della connessione aperta da Gramsci tra i fatti culturali e le condizioni socio-economiche. Da giovane era stato anche un uomo politico della sinistra del Psi e del Psiup, e aveva spesso collaborato con quotidiani e riviste militanti come «l'Avanti!», «Mondo Operaio» e «Paese Sera». Nel 1966 aveva fondato assieme a Gianni Bosio l'Istituto Ernesto de Martino collaborando a spettacoli celebri del canto popolare come «Bella Ciao» e «Ci ragiono e canto» con Dario Fo. Da alcuni anni era diventato molto critico verso i partiti di sinistra e si considerava un «cane sciolto», ma non smetteva di riflettere in modo critico e con scrupolo filologico su alcuni nodi cruciali della cultura italiana del dopoguerra, sulle polemiche del Pci verso Rocco Scotellaro, Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini .
Diceva di avere «cinque patrie culturali», terre di vita e oggetti di studio che egli aveva scelto: l'Abruzzo, terra di sua madre; il Molise paterno, al centro di importanti lavori sulla storia locale e sulla musica tradizionale; la Sabina laziale, della giovinezza e dell'impegno politico; la Sardegna in cui raggiunse la piena maturità di studioso e di maestro (tra i suoi allievi figure come Giulio Angioni, Pietro Clemente e Piergiorgio Solinas) e infine il Messico, con gli studi sulla parentela e sul Calendario Maya. Da molti anni risiedeva a Roma in Piazza Capri. Nelle stanze colmi di libri, di vecchi «cervelli elettronici» e pionieristici registratori audio ha accolto con generosità e rigore tanti giovani ricercatori, fornendo generosamente i suoi materiali per tesi e articoli. Era seguito dal figlio Eugenio, giornalista di «Repubblica» e dalla moglie Liliana Serafini, compagna preziosa e sodale in alcuni lavori (come la raccolta di fiabe di tutta l'Italia per la Discoteca di Stato negli anni 1968-72).
«Una vita sola non basta allo studio», amava dire, e in una intervista per «Etnologie Francaise» su quali fossero le tappe fondamentali della sua carriera e della sua vita aveva risposto «Mio padre, il Musée de l'Homme di Parigi e i mezzadri socialisti della Piana di Rieti» ossia: l'amore per la poesia e la letteratura popolare, l'incontro con Claude Lévi-Strauss e lo Strutturalismo, le lotte per la terra dei contadini nel Dopoguerra. Contadini poveri, questi ultimi, in grado di avere una forte dignità e un protagonismo sociale che Cirese condensava in questo ricordo: «Mò statte zitte professò, parla lu cafone».

il manifesto, 3 settembre 2011

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