9.4.13

La poesia di Rocco Scotellaro (di Alessandra Reccia)

Giuseppe Antonello Leone, Busto in bronzo di Rocco Scotellaro
Rocco Scotellaro e la cultura dell’uva puttanella è un importante saggio di Carlo Muscetta, scritto per «Società» nel 1954, in occasione della pubblicazione per Mondadori delle poesie di È fatto giorno. Da pochi mesi il saggio è stato ripubblicato in un’elegante edizione da Il Girasole di Catania insieme al carteggio inedito tra il critico, allora occupato alla sede romana dell’Einaudi, e il giovane poeta.
La corrispondenza, datata tra il maggio del 1946 e il febbraio del 1952, ha per argomento la vicenda della pubblicazione della raccolta poetica, a quel tempo in discussione presso la casa editrice torinese, dove trovò l’opposizione soprattutto di Vittorini, che riteneva spesso banali i versi del poeta lucano. In generale la redazione torinese temeva di sopravvalutare questo autore, la cui attenzione consideravano momentanea perché legata alla contingenza politica. Così all’inizio anche Pavese, generalmente in disaccordo con Vittorini, diede il suo parere negativo. In generale restavano in redazione i dubbi su un’opera frammentaria e di sapore populista. Rispetto a questo giudizio e soprattutto per È fatto giorno Muscetta, i cui rapporti con Torino non erano sempre sereni, poté poco. Le missive ora pubblicate certo testimoniano dell’impegno profuso per il giovane amico, verso il quale Muscetta nutriva la più profonda stima. Tuttavia quei versi non lo convincevano del tutto.        
Era stato Carlo Levi a consacrare Scotellaro poeta contadino. La definizione non era piaciuta a molti degli intellettuali più tenacemente legati al partito comunista. Le motivazioni politiche addotte erano molteplici e tuttavia possono essere sintetizzate nell’accusa di un meridionalismo sentimentalistico e riformista, che aveva le sue radici nella sinistra liberale e nel Partito d’Azione. Le amicizie di Scotellaro con Levi e, soprattutto, con Rossi Doria contribuirono non poco alla formulazione di questo giudizio che poi fu alla base della stereotipizzazione di Scotellaro. Il mito del sindaco poeta, criticato da taluni ad esaltato da altri, ha finito con il tempo per sovrastare la sua poesia, fino a ridurla a una genuina ma sorpassata esperienza letteraria, ad un’idea ingenua del rapporto tra poesia e politica, ad un’esperienza limitata ad un periodo storico che si descrive come caratterizzato da illusioni e nefaste ideologie.
Proprio quella stereotipizzazione induce oggi Maurizio Cucchi, che introduce l’edizione completa delle poesie di Scotellaro pubblicate da Mondadori nel 2004 a cura di Franco Vitelli, a liberare il poeta dalla gabbia nella quale il suo personaggio lo aveva intrappolato, ovvero separandolo dall’intellettuale e dal politico.
Cucchi, che parla giustamente di un poeta in «strettissimo rapporto con la sua terra e la realtà storica del suo tempo», è tra i pochissimi in Italia interessato ad una possibile eredità poetica del lucano, descritto come il più significativo neorealista, ma già ultimo della sua generazione e capace di prospettare soluzioni musicali e linguistiche assolutamente originali. A questo giudizio sembra però doveroso aggiungere che Scotellaro fece della contingenza sociale nella quale visse non soltanto un pretesto poetico, come a volte sembra trasparire dal discorso di Cucchi, ma l’istanza stessa della sua poesia e del modo di essere poeta.
Si ha l’impressione che per assurdo l’unico modo di restituire Scotellaro alla contemporaneità sia quello di recuperarlo alla storia. Non va dimenticato che egli considerò tutta la sua attività poetica, letteraria e sociologica in rapporto a quella politica. In questo senso fu un intellettuale di sinistra, di quelli che comprendendo di vivere in un periodo di forti mutamenti economici e politici mettevano la loro cultura al servizio della trasformazione sociale.
Il saggio di Muscetta, pur venendo da così lontano, ci invita a riflettere sul senso e il valore di una poesia che pretendeva d’essere qualcosa di più di un lamento dell’anima, di un inerme strumento di consolazione e si candidava per essere riconosciuta come poesia rivoluzionaria. Non si tratta di opporre le ragioni, per altro non sempre condivise, di un saggio degli anni Cinquanta con quelle attuali, che pure nascono dalla necessità di recuperare un poeta che rischia di essere totalmente dimenticato. Ma semplicemente di mettere in tensione quelle con queste.
Nell’immediato dopoguerra la rivoluzione non era solo un sogno o una speranza di pochi illusi, ma una reale prospettiva per l’Italia. Nelle città industriali del nord come nelle campagne meridionali, chi credeva al progetto politico contribuiva come poteva o sapeva alla sua realizzazione. Anche la poesia doveva fare la sua parte.
Carlo Levi esaltò senza mezzi termini Scotellaro «poeta della libertà contadina»; parlando addirittura di Sempre nuova è l’alba come di una vera e propria «marsigliese». Tuttavia la poesia di denuncia, la protesta contadina consegnata in versi non sarebbe mai diventata per Muscetta una poesia rivoluzionaria. Pur riconoscendo Scotellaro poeta di talento e d’ingegno, poiché «ambiva alle forme più alte della poesia contemporanea per un contenuto che gli sembrava tragicamente degno», riteneva che un’incompetenza o un’incertezza ideologica gli impedissero di compiere il salto. I protagonisti dei suoi versi, dal padre agli emigranti, dai briganti ai contadini in lotta, per Muscetta erano solo parzialmente recuperati alla storia, al compito storico che la contemporaneità gli affidava, e restavano in buona parte nel mito, contribuendo ad alimentare un certo sentimentalismo, su cui si basava un certo meridionalismo paternalistico e compassionevole. Alla fine «le immagini leviane del brigantaggio che vengono a tentare la fantasia anarchica del mondo contadino sono respinte e insieme accarezzate».
Insomma, nonostante la stima e la forte amicizia che, come attesta il carteggio, lo legavano a Scotellaro, Muscetta è tutto proteso nel suo saggio a delineare «il limite del fiato poetico di Rocco».
L’articolo di Muscetta e quello di Alicata, uscito solo un mese prima su «Cronache meridionali», diedero l’avvio ad un aspro dibattito sulla figura di Scotellaro, che si incentrò soprattutto sulla funzione della sua opera nell’ambito della cultura della sinistra italiana, in particolar modo meridionale. In realtà l’input era stato dato da un intervento di Salinari che individuò come uno dei Tre errori a Viareggio, la consegna del premio a È fatto giorno.
L’argomento politico che sosteneva la discussione era quello del rapporto tra le lotte contadine e quelle operaie, a quel tempo attive nelle città industrializzate del nord. Le polemiche che in quei mesi accompagnarono la pubblicazione delle opere di Scotellaro, tutte postume, furono determinanti per l’organizzazione del convegno di Matera del febbraio del 1955, voluto da Raniero Panzieri, allora responsabile della cultura del Psi, da poco arrivato dalla Sicilia, dove aveva partecipato alle lotte contadine.
Il convegno mise in evidenza il carattere politico della discussione su questo autore. Panzieri, infatti, propose alla sinistra italiana, lì convenuta su suo invito, di riattivare una riflessione sul meridionalismo e sul ruolo delle forze sociali contadine rispetto a quelle operaie. Non si trattava di mettere in discussione «la funzione decisiva» che nella lotta doveva avere la classe operaia, ma riprendere il problema dell’unità politica delle masse in Italia, posto politicamente dall’antifascismo e dalla Liberazione. La cosiddetta questione meridionale, individuata da Gramsci come una particolarità tutta italiana dovuta allo sviluppo storico-politico della giovane nazione, si riproponeva nei movimenti di occupazione delle terre, mentre già le forze reazionarie democristiane ne organizzavano una risoluzione. Del problema pratico e teorico che si poneva alla sinistra in quel momento storico Panzieri tentò di fare di Scotellaro un personaggio chiave. Questa proposta però non fu accolta e del convegno non furono mai prodotti gli atti. Ne resta comunque traccia in un numero di «Mondo Operaio», la cui redazione chiese a molti dei partecipanti resoconti ed impressioni sulla giornata materana. 
Ciò che colpì l’attenzione degli intellettuali intervenuti fu senza dubbio la presenza cospicua e attenta dei contadini, venuti in città quel 6 febbraio del 1955 a ricordare il compagno da poco scomparso. A loro il giovane sindaco aveva dedicato tutta la sua attività politica e sindacale, fin dal 1943.
Tra gli interventi più toccanti e applauditi di quella giornata ci fu sicuramente quello di Fortini le cui parole rivolte ai contadini in sala vennero più volte ripetute dagli altri partecipanti.
La tesi di Fortini non era nella sostanza diversa da quella di Muscetta. L’accordo di fondo era certamente su una questione estetica e politica. Per Fortini un eccesso di lirismo, un accentuato sentimento paternalistico vietava una matura evoluzione, condizione per ogni passaggio rivoluzionario, dal piano soggettivistico dell’angoscia e della tenerezza a quello politico dell’istanza collettiva, del «noi». Nel resoconto per «Mondo Operaio», ricordando la vergogna dell’intellettuale di fronte ai contadini intervenuti, Fortini sospetta che la poesia, in particolare quella di Scotellaro, alleviando con le sue armonie i dolori di quegli uomini, finisse di fatto per attutire la rabbia e la lotta, trasformandosi da strumento di emancipazione in un cappio. «L’attività politica è l’unica forma reale di cultura dei contadini di laggiù».
In sintesi, la poesia di Scotellaro gli era sembrata un cedimento al dolore del mondo e Scotellaro restava, come già per Muscetta, un poeta dell’idillio e questo nonostante lo sforzo di fare dei suoi versi un momento decisivo della coscienza contadina.
Entrambi i critici individuano una discrepanza tra l’aspetto lirico-soggettivo di questa poesia e la sua pretesa sociale. Anche la lingua, la cui originalità, secondo Muscetta, è legata ai contesti tematici proposti e che si spinge fino «alle parole che più sanno di dialetto, alle clausole stornellanti con piglio d’improvvisata popolare», si fa incerta perché affiancata da un linguaggio di maniera, ostentato «per ambizione di uno stile più colto e prezioso». La consapevolezza che «quella vita intorno a lui esigeva parole nuove» non arrivò, per un’incertezza ideologica e un’immaturità legata anche alla giovane età del poeta, ai risultati che pure prometteva. Questo nonostante Scotellaro avesse fatto un passaggio in tale direzione proprio grazie al suo ingresso attivo nella vita politica del Mezzogiorno.
A ciò giunse, anche se per vie diverse, Fortini il quale riteneva che un poeta, quando prende coscienza del rapporto tra le contraddizioni sue e quelle di un’intera epoca, ha davanti a sé due strade. La prima è quella di sostituire immediatamente l’«io» lirico con il «noi» inserendo nei testi nuovi contenuti a carattere sociale. Si tratta di un percorso senza futuro, che induce il poeta, prima o poi, a tornare indietro, abbandonando la pretesa di immedesimazione collettiva e investendo nuovamente sull’ io, attribuendogli questa volta la responsabilità di significare «paradossalmente e negativamente tutto un immenso cerchio di non-io e di altro». La situazione lirica si presenta così come un luogo risolutivo delle tensioni dell’io nel mondo, ma allo stesso tempo luogo ideale in contrapposizione al reale. In questo senso l’attività poetica resta scissa da quella politica, che torna ad essere il luogo specialistico deputato alla prassi. La discrasia tra il desiderio di conciliazione e la lentezza dei mutamenti possibili nella realtà è fonte di angoscia. Ma comunque per Fortini, al contrario invece che per Muscetta, «può farsi poesia dello squilibrio tragico fra la persuasione e la speranza da una parte e la paura delle cose stesse che si sperano, la coscienza di essere inferiori alla storia e alle nostre medesime promesse». Inseriti in questo filone Blok e Pasternak, Fortini  individua in esso la strada tentata da Scotellaro.
L’altra possibilità invece è quella dell’oggettivazione della contraddizione che liricamente si percepisce sul piano soggettivo. Questo allontanamento da sé del dolore del mondo ha trovato per Fortini la sua forma ideale nel romanzo o nel dramma, ma anche nell’inno, nell’ode o nell’epigramma, in quelle situazioni poetiche, cioè, in cui le contraddizioni tornano alla forma lirica liberate «dal primo pianto esistenziale». Era questa la dimensione con la quale Scotellaro non era riuscito a misurarsi.
Mettendo in tensione la proposta di lettura di Cucchi con quelle di Muscetta e Fortini, sembra utile tornare a riflettere sul rapporto che in questi versi si istaura tra il momento propriamente lirico e quello invece politico nella poesia di Scotellaro.
In questi versi, ci sembra, la dimensione idillica, che pure è predominante, non è mai un rifugio o scopo del canto. D’altra parte è indubbio che essa rimandi ad un desiderio di armonia. Questo, però, è piuttosto dettato da una stanchezza, che il poeta vorrebbe scrollarsi di dosso magicamente, come invocando gli spiriti benigni. «Non gridatemi più dentro/ non soffiatemi in cuore/ i vostri fiati caldi, contadini // Beviamoci insieme una tazza colma di vino» (Sempre nuova è l’alba).
Il richiamo all’immediatezza, alla convivialità, frequente nei suoi versi, è un desiderio momentaneo. Scotellaro, che come giustamente sottolinea Cucchi è «estraneo ad ogni forma di vana lamentazione», non è nemmeno al contrario poeta dell’ubriacatura, del carpe diem, così come si compiacevano di pensare tanto Fortini che Muscetta, seppure con argomenti molto diversi tra loro. Semmai, l’umano desiderio di leggerezza, il saper approfittare dell’attimo fuggevole sono da lui indicate come quelle cose che tengono legati gli uomini alle proprie catene. I fuochi il giorno del santo patrono, il vino la sera di ritorno dai campi, il canto che automatizza i gesti e allevia la fatica fisica è ciò che rende sopportabile, e dunque perpetua, la propria condizione di sfruttati.
«Hanno pittato la luna/sui nostri muri scalcinati!/I padroni hanno dato da mangiare/quel giorno si era tutti fratelli,/come nelle feste dei santi/abbiamo avuto il fuoco e la banda» (Pozzanghera il 18 aprile).
Su questo sfondo, si innalzano le teste dei briganti lasciate ai pali. Queste chiamano ad una nuova responsabilità che non è però la macchia, la rivolta fiera e anarchica dei mitici fuorilegge meridionali, ma è rischio, speranza, fratellanza.
I versi di Scotellaro erano fortemente legati alla loro realtà. Non avevano da parlare del movimento contadino quale poteva essere in teoria, ma dei limiti e delle possibilità che in pratica esprimeva. Alla rivolta del brigante, come alla tessera della Dc o alla scelta dell’emigrazione, Scotellaro aveva da opporre niente meno che il partito, l’organizzazione, il socialismo. Per questo nelle sue poesie non ci sono eroi, ma solo uomini che hanno paura di morire e nondimeno muoiono (Due eroi) che sanno che la rivoluzione non ammette pace, e tuttavia la cercano (Mio padre, Di noi fissi). È la paura e l’attrazione per la perdita del proprio mondo (L’amica di città, Salmo alla casa e all’emigrante, Dichiarazione d’amore ad una straniera, Lo scoglio di Positano e altre) perdita che resta  necessaria in vista di quell’alba, che Scotellaro era sicuro di scorgere in tutto ciò che lo circondava. Così un giorno, nel carcere dove era stato ingiustamente rinchiuso, parlando animatamente delle sue posizioni politiche Scotellaro si convinse di aver avuto ragione contro il brigante Giappone che esponeva le sue teorie libertarie: «Riuscì a batterlo nella discussione generale perché il mondo nuovo che si sentiva nelle parole che mi veniva da dire era nel cuore di tutti, anche nel suo».
Con questa certezza caparbia, più che ingenua, questo giovane «gracile com’era, e con quel suo volto roseo e lentigginoso» avrebbe sfidato il mondo. E ogni giorno lo sfidava misurandosi con la miseria, l’ignoranza, l’arroganza, che non erano per lui forze oscure ma semplicemente un risultato storico. Solo questa chiarezza gli consentiva di recuperare gli elementi di forza, i vantaggi di quel mondo contadino che doveva essere superato e dal quale però non voleva prescindere.
Ne prescinderà invece la modernizzazione operata dal capitale, mentre la Dc penserà a reprimere le forze sociali che dal dopoguerra si erano sprigionate in tutto il Sud Italia, rigettando nella rassegnazione un’intera generazione di contadini in lotta.
Scotellaro non fece a tempo a vedere il nuovo e moderno Sud, eppure già ne indovinava gli esiti sociali. In questo fu assolutamente inascoltato dalla sinistra. Non per nulla negli anni Settanta, rispetto a quel periodo, arriverà dalla Basilicata l’accusa di un «vuoto di impegno interpretativo che da allora fino ai tempi più recenti, la sinistra italiana ha la responsabilità di aver mantenuto sul Mezzogiorno».
Scotellaro lasciò il suo paese nel 1950 per la città, prima Roma e poi Napoli, dopo quaranta giorni di reclusione, mosso dall’indigenza e dalla consapevolezza che fare il sindaco non poteva bastare più. Chiunque legga oggi la sua breve ed incompiuta autobiografia non può che meravigliarsi di come questo «Io» si vada costruendo sempre in rapporto e di riflesso agli altri. Persino il carcere non è raccontato come un evento traumatico della sua esistenza ma come un’esperienza privilegiata per la conoscenza dei rapporti sociali.
Questo sforzo costante di pensare se stessi e il proprio disagio in relazione al mondo, e non in isolata opposizione ad esso, è una caratteristica della poesia di Scotellaro. Che i suoi versi avessero avuto un risvolto pratico lo dimostrarono infine i contadini quel 6 febbraio a Matera. Scotellaro non si era mai preoccupato «di parlare loro più lentamente», come invece si premurò di fare al convegno Pirelli, e nemmeno si era posto il problema di dover separare gli argomenti per i contadini da quelli per gli intellettuali, come sospettava Fortini che diceva, forse a se stesso, che «ai contadini si può parlare di tutto». Una prova ne viene ancora dal periodo del carcere quando, discutendo con gli altri detenuti, opponeva la sua verità alla loro. Non si sarebbe certo meravigliato, come invece tutti i suoi amici intellettuali, della serietà e del contegno dei contadini, della loro capacità di comprendere i versi. Raccontò uno di loro intervenuto al dibattito: «Ci leggeva le sue poesie, le componeva seduto accanto a noi sull’aia dove si trebbiava, accanto al fosso dove si zappava, seduto alla nostra mensa, e ci chiedeva: vi piace? A noi piacevano perché Rocco scriveva con parole nostre».
Non si pensi ad un ammiccamento poetico, la lingua di Scotellaro, come già poté notare Pasolini, non è mai banale o colloquiale, certamente essenziale piuttosto che mimetica. Valeva forse la pena che un Muscetta o un Fortini si domandassero cosa intendessero i contadini con «parole nostre». Politicamente, la loro partecipata presenza poneva in termini nuovi il problema individuato da Gramsci dell’avversità nel meridione tra gli intellettuali e classi lavoratrici. Vale indubbiamente la pena oggi accogliere l’invito di Cucchi a restituire una fisionomia autonoma a questo poeta «appassionato e fedele» esaltando la ruvidezza di certi suoi versi asciutti e spigolosi, ma anche, aggiungiamo, di riproporre con questi versi la possibilità di una poesia che pretenda per sé una funzione, un ruolo e un posto attivo nella storia degli uomini. Non allontanare dunque, ma semmai restituire il poeta «alla complessità della sua azione e del suo lavoro culturale».

Da “L’ospite ingrato”, rivista on line del Centro studi Franco Fortini, 8 marzo 2011

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