8.4.13

“Lagrime a pagamento” (Alberto M. Cirese, 1950)

Una chiangimorti del Salento
Un povero vecchio impazzì tempo fa in Sardegna, ci racconta Enzo Grazzini sul Corriere della Sera del 16 marzo (e “Paese Sera” sottolineava il racconto nelle sue Idee degli altri); impazzì per lo sforzo di tenere a mente l'infinito numero delle zanzare che andava uccidendo nella folle battaglia individuale che aveva ingaggiato contro la malaria: “un anno dopo sarebbe impazzito egualmente, ma di gioia” nell'apprendere che la malaria era vinta.
Forse. Ma alla sua morte l'avrebbero pianto e gridato con le stesse frasi, con gli stessi gesti, con la stessa professionalità che tanto hanno colpito il giornalista. “Ah, che mi si spezza il cuore! Ah, che giorno triste! Non arrivano mai a finire i giorni di lacrime!”. Questo avrebbero in ogni caso ripetuto le donne, inondando i visi di “lagrime a pagamento”; e la sorella del morto avrebbe egualmente lanciato al feretro il suo rauco urlo di addio facendo l'atto di strapparsi i capelli. E la sconcertata sorpresa del giornalista e dei suoi lettori sarebbe stata identica.
Ben altro che la sola vittoria sulla malaria occorre perché i pastori e i contadini di Sardegna, e di cento altri luoghi, entrino in un mondo umano diverso. Anche in Sicilia, anche in Calabria si pagano donne per far piangere i morti; e se in Abruzzo o in Irpinia non si danno compensi, tuttavia i lamenti, gli urli e le lodi delle prefiche hanno sempre un tono “convenzionale” che fa pensare, in ogni caso, che l'unica commozione gratuita e sincera sia quella dello spettatore “civile” che vi assiste ed avverte un profondo disagio: la sorpresa e lo sconcerto di assistere a qualche cosa di assolutamente incomprensibile e inumano.
Quale punto d'incontro può trovare la società delle classi egemoniche, la società che politicamente si amministra a Montecitorio e socialmente si radica nell'alta finanza e nella burocrazia, che artisticamente si diletta in Ungaretti o in Dalì, e filosoficamente si impersona, almeno oggi, in Benedetto Croce; quale punto di incontro può trovare con quest'uso di remotissima antichità, quest'uso di barbaro sapore che consiste nel piangere pubblicamente i morti con rozzi lamenti, con grida inarticolate e gesti forsennati?
Non vi sono che antichissimi e nascosti contatti, che spesso ci si rifiuta di ricercare. Dietro le nostre spalle di moderni si stende un tempo in gran parte ignorato, un tempo del quale abitualmente conosciamo e studiamo solo gli aspetti più simili alla nostra cultura, alla nostra psicologia: gli aspetti egemonici. Dell'altra cultura, dell'altra psicologia, cioè delle manifestazioni delle classi rimaste sinora subalterne in tanta parte del mondo, abbiamo o ignorato o frainteso gli aspetti e i documenti. E quando un relitto di un'arcaica cultura affiora con maggiore evidenza se ne trae tutto il colore locale che si può, e quel tanto di compassione che un umanitarismo innocuo consente, ma si respinge ogni volontà o possibilità di spiegare, come è capitato a Grazzini: “mi sfiorò l'idea di cercare una spiegazione qualsiasi a questo fatto sia pure approssimativa, ma dovetti convincermi che sarebbe stato folle proponimento”.
Ma i relitti sono lì, insopprimibili documenti della insufficienza della nostra società, della inadeguatezza della nostra cultura; le tracce evidenti e recenti del costume delle prefiche giungono a Ovindoli ad Amatrice, quasi a Roma, così come alle porte di Roma neppure vent'anni fa si compiva un delitto per magia, alla ricerca di un tesoro. Anche se fosse vero che questi atti sono soltanto manifestazioni minori e aberranti della stessa umanità che costituisce le classi egemoniche, suonerebbero egualmente condanna per la società che ne consente la sopravvivenza.
I nostri letterati, i nostri filosofi nelle loro chiuse meditazioni affermano di cercare valori universali. Ed a pochi chilometri da loro vivono altri uomini per i quali quei valori non valgono e che da quei valori non sono spiegati. Cosa divengono allora i nostri pretesi assoluti, i nostri così detti valori eterni? I pastori di Nuoro fanno parte della nostra storia quando debbono contribuire alla civiltà degli altri con il lavoro, le tasse e il servizio militare. Ma quanto alla cultura, sono di un altro mondo, un mondo che non conta, che è inutile, impossibile, folle tentar di spiegare. L'eterno e l'universale sono dunque ben poca e miserevole cosa: niente di diverso dalla separazione che consente ai negri di viaggiare sullo stesso treno che porta bianchi e neri al lavoro, ma in classi rigorosamente distinte; o dalla condiscendenza del piantatore bianco che permette ai suoi negri di rispettare i loro riti a condizione che l'indomani ridivengano solo bestie da fatica nei campi. Non è dunque “folle” accingersi e spiegare la natura di quell'altro mondo di lagrime prezzolate e di delitti per magia; ma è l'unico modo per saldare la frattura e dare concreto valore agli universali di cui si occupano gli intellettuali. E' folle soltanto se si teme di scoprire negli arcaici relitti i segni di un comune tempo umano, dimenticato e negato, ma dialetticamente presente nella nostra cultura; perché allora apparirà la fragile eternità di tanti nostri idoli odierni, deboli difese d'una società che non è capace di spiegarsi e di conservarsi altro che respingendo fuori dei suoi schemi più della metà del genere umano.

"Paese Sera Libri", 25/3/1950
digitalizzazione del testo a cura di Valentina Santonico
pubblicato sul sito www.amcirese.it  il 9/10/2007

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