Quello che segue è un necrologio, o un coccodrillo – come si dice in gergo giornalistico; ma è anche un’utile sintesi su un’interprete importante della canzone italiana, una delle voci che ne hanno fatto la storia (S.L.L.)
Sarebbe troppo facile dire che con la morte di Nilla Pizzi, avvenuta ieri alle soglie dei novantadue anni, scompare definitivamente la vecchia canzone all'italiana melodica e manierata, soppiantata, dagli anni '60 in poi, da urlatori, rock e cantautori. Nei fatti, quella di Nilla Pizzi fu una canzone che aveva senz'altro già assimilato i primi vagiti della modernità ma era ben lontana da quello che si stava muovendo, con incontrastabile potenza, nel resto del mondo e che sarebbe, inevitabilmente, arrivato anche da noi.
Era quella un'Italia provinciale e angusta che fu presto superata da una accelerazione storica che avrebbe sconvolto il paese dopo decenni di isolamento culturale. E tuttavia non si può non apprezzare, nel degrado nel quale oggi stiamo naufragando, il garbo di Nilla Pizzi, la sua flessibilità (icona dell'Italia tradizionalista non si fece problemi a fare da madrina al gay-pride del 2001) e la sua imperturbabilità nell'accettare gli alti e bassi del successo, specchio di una visione popolare del mondo che nella mutazione antropologica italiana sarebbe poi stata smarrita per essere sostituita non da una reale emancipazione ma dalla nevrosi da successo, dalla depressione da oblìo mediatico e dalla sindrome di arricchimento istantaneo.
Nata a Sant'Agata Bolognese il 16 aprile 1919, di umili origini, Nilla (all'anagrafe Adionilla) Pizzi cominciò a farsi notare nelle gare musicali già nel 1939 e nel 1942 (prima classificata a «Voci nuove», concorso indetto dall'Eiar) per esplodere come vincitrice delle prime due edizioni del Festival di Sanremo dove arrivò, al suo esordio, seconda e poi prima, seconda e terza. Diventò un fenomeno di massa grazie soprattutto alla vendita dei dischi (36mila copie per Grazie dei fior) e alla radio, che valorizzò quel timbro vocale sensuale ed «esotico» originariamente visto con sospetto dal regime. Poi, quando nel 1958 Domenico Modugno vinse il Festival con Nel blu dipinto di blu (Volare), il secondo posto di Nilla Pizzi apparve davvero il momento della staffetta, il segno che l'Italia era definitivamente cambiata.
E, infatti, dopo Modugno arrivò nel belpaese la rivoluzione della canzone d'autore e tutto quello che sappiamo. L'artista bolognese, per nulla scoraggiata, e senza tentare improbabili cambiamenti, continuò perfino negli anni '70 a portare avanti la sua ricetta musicale, proponendola alle comunità degli immigrati italiani all'estero, dove con meno forza arrivava il fragore di un'Italia straziata, come cantava Gaber, «dalla lotta, dal dolore, dalle bombe». Ricomparsa a Sanremo nel 1981 come co-presentatrice, e di nuovo come cantante nel 1994, Nilla Pizzi vi ritornò perfino nel 2010, quando Carmen Consoli interpretò il suo grande successo Grazie dei fior. La sua idea di canzone fu sempre la stessa: una canzone leggera ma che non impediva allusioni a un potere che veniva visto come irraggiungibile (come in Papaveri e papere). Senza immaginare, che nel rovesciamento delle parti, i papaveri sarebbero stati sempre più raggiungibili (e ricattabili).
“il manifesto”, 13 marzo 2011
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