11.4.13

Mircea Eliade, artista del sacro (di Emanuele Trevi)

Una ricognizione e un bilancio utili e penetranti su un controverso studioso delle religioni con pulsioni reazionarie e dubbie relazioni, forse con qualche eccesso di indulgenza per l'uomo di genio. (S.L.L.)
Nel 1978 Emile Cioran dedicò a Mircea Eliade uno dei suoi prodigiosi ritratti, poi raccolto negli Esercizi d'ammirazione. Tra i giovani rumeni che all'inizio degli anni '30 frequentavano l'università di Bucarest - ricorda Cioran - Eliade godeva di un prestigio unico, rafforzato dalla sua indefessa capacità di lavoro: ai saggi scientifici e ai romanzi si aggiungevano le centinaia di articoli, regolarmente pubblicati sui maggiori periodici rumeni, e le lezioni all'università, sempre frequentate da un foltissimo pubblico. Della nuova generazione - assicura Cioran senza mezzi termini - Eliade, poco più che ventenne, era l'«idolo». L'esercizio di un tale magnetismo non può essere spiegato solo con il valore intrinseco di una produzione scientifica e letteraria. Quanto alla prima, bisognerà ricordare, tra l'altro, che il suo peso specifico si sarebbe definito solo quando le vicende della vita permisero a Eliade di frequentare le grandi biblioteche, prima di Londra e poi di Parigi, durante quegli anni '40 nei quali era maturata l'impresa del Trattato di storia delle religioni e dei saggi ad esso collegati, primo fra tutti Il mito dell'eterno ritorno.

Alla luce del destino
Ma già negli anni '30, e fino al periodo della vecchiaia in America, il fascino di Eliade era strettamente connesso alla capacità di interpretare i casi della vita alla luce del rivelarsi, progressivo e inesorabile, di un destino. Figlio di un ufficiale di carriera, fin dalla prima adolescenza manifestò una volontà di sapere disordinata quanto enciclopedica. Come il suo futuro amico Ernst Junger, si appassionò di entomologia e, a quattordici anni, scrisse il suo primo romanzo, Come ho trovato la pietra filosofale, profetico fin dal titolo.
Si immerse nella Commedia umana di Balzac, e tra i contemporanei, ammirò soprattutto Giovanni Papini e il modello di autobiografia «poetica» dell'Uomo finito: la crisi di identità testimoniata da Papini nel suo capolavoro si colloca al giro di boa del trentesimo anno. Quanto a Eliade, ne aveva appena ventidue quando chiese e ottenne una borsa di studio in India, a Calcutta, allo scopo di seguire gli insegnamenti di Surendranath Dasgupta, che gli avrebbe rivelato il senso profondo della filosofia e delle tecniche dello yoga, approfondite in un ashram dell'Himalaya.

La prima tessera del suo affresco
Tutto questo passeggiare su così impervie vette spirituali non impedì peraltro a Eliade di impegolarsi in un infelice amore indiano: anche il romanziere faceva dunque valere i suoi diritti e ricavava materiali abbondanti per opere future. In India, comunque, Eliade apprese cose fondamentali per il suo futuro - o almeno le portò al necessario grado di approfondimento che sarebbe servito al suo lavoro.
Discusso nel 1933 come tesi di dottorato e pubblicato in francese a Parigi nel '36, il suo saggio sullo yoga e le origini della mistica indiana (in seguito rielaborato) può essere considerato come la prima tappa importante del grande affresco antropologico-religioso di Eliade. Ma il viaggio in India, durato dal novembre del 1929 al dicembre del '31, ebbe per lui il valore di una vera e propria seconda nascita, le cui molteplici valenze non avrebbero smesso di affiorare (ora in forma filosofica, ora narrativa) negli anni futuri. Tutto il pensiero di Eliade, fino ai tardi studi sugli aborigeni australiani e alla Storia delle credenze e delle idee religiose, sembra già implicito in quelle prime esperienze spirituali compiute nel solco della tradizione vedica e della sapienza riposta nelle Upanishad.
Il fascino e l'originalità del percorso intellettuale di Eliade consiste nel fatto che fin dai primi tentativi esso sembra cogliere il segno, individuare il nodo vitale, il centro capace di irradiare la massima concentrazione di significati. Più che svilupparsi in modo lineare verso una qualche direzione, il pensiero di Eliade sembra ritornare senza tregua verso quel centro, sempre uguale a se stesso. È un pensiero, si potrebbe dire, che preferisce moltiplicarsi piuttosto che progredire. Più che di «storia delle religioni», etichetta accettabile solo per comodità, si dovrebbe parlare, a proposito di questo originalissimo sapere di Eliade, di una grande antropologia fondata sui rapporti tra l'uomo e il sacro. Il fulcro di tali rapporti è ciò che Eliade definisce ierofania - vale a dire il manifestarsi del sacro all'interno, e attraverso, determinati aspetti del reale. E dunque, vi sono ierofanie celesti, legate al senso del destino, e ierofanie terrestri, legati ai cicli agrari e al bisogno di fecondità. Tutti i regni dell'esistenza, dunque, e i modi dell'apparenza, le pietre e le acque, i venti e le bestie, i climi e le maree sono possibili contenitori, scrigni del sacro. Ciò che per sua natura dovrebbe essere invisibile, dunque, e fuori dalla portata dell'esperienza, è tuttavia sempre compromesso con il visibile, che aspira a catturarlo nelle sue maglie, scovargli un simbolo adeguato, sottoporlo a uno sguardo e a una relazione. È l'energia di questo paradosso che muove la macchina del sacro - e nello stesso tempo orienta la realtà, la rende leggibile donandole un centro, dei confini, un inizio e una fine. Non solo l'esperienza del sacro dà senso ai fenomeni naturali, allora, ma più in profondità è all'origine del modo umano di concepire lo spazio e il tempo, vale a dire le categorie fondanti del conoscere e di ogni possibile esperienza.
Ma a quale umanità appartiene, e da quale tradizione specifica è testimoniata, una concezione così sublime e complessa del mondo? In altre parole, chi è il soggetto reale, storicamente inteso, di questa esperienza? Chi il protagonista di questo romanzo così affascinante? Eliade userà molto spesso, lungo tutta la sua opera, l'aggettivo «arcaico», lasciando che di volta in volta una determinata testimonianza, o una determinata forma di esistenza, vengano investite di questo valore. Se lo yoga è una tecnica, l'eremita indiano è colui che la possiede, al termine di un processo di ascesi e di iniziazione che impegna l'essere nella sua totalità, così come alle tecniche dell'estasi tramandate dalle culture primitive di mezzo mondo corrispondono necessariamente le forme della vita e le concezioni del mondo dello sciamanesimo. Ciò che sorprende e avvince nei saggi di Eliade è proprio questa puntuale congruenza tra le concezioni metafisiche e le condizioni dell'esistenza. Le soggettività che di volta in volta si fanno carico di una particolare esperienza «arcaica» del sacro si moltiplicano, nell'opera di Eliade, come i personaggi nella Commedia umana di Balzac. A volte, a fianco dello yogin solitario e dello sciamano siberiano o amazzonico, apparirà anche il contadino dell'Est Europa, il moldavo ancora immerso nel suo cristianesimo «cosmico» (spesso e volentieri, in Eliade, «cosmico» e «arcaico» sono quasi sinonimi), l'opposto della religione «storica» che ne è il proseguimento vittorioso e insieme degradato. Ed essendo Eliade vissuto nei tempi in cui è vissuto, non poteva che essere questa figura di contadino, rievocata con nostalgia e una buona dosa di immaginazione idealizzante, all'origine di tutti gli spiacevoli incidenti ideologici che hanno segnato la sua immagine pubblica fin dalla metà degli anni '30.
La schifosa marea montante dei fascismi e dei nazismi europei faceva leva su un immaginario «agrario» astutamente mitizzato e di facile presa emotiva. In Romania, poi, tutta l'ideologia della filonazista Guardia di Ferro era permeata di retorica contadina e dei soliti cicalecci dementi di sangue e di zolle. Tracce di questo fango, lo devono ammettere anche i più zelanti detrattori, non ci sono, o sono lievissime, nell'opera di Eliade, scritti privati compresi. Ma l'equivoco era fin troppo facile, in tempi di agitazione convulsa e strumentale delle idee, e il suo scivolone nazionalista sembra da imputare più a ingenuità che ad altro. Una brillante ed equilibrata ricostruzione di tutto l'affaire è nella nuova edizione italiana del Trattato di storia delle religioni curata da Pietro Angelini (Bollati Boringhieri 1999). È vero che Eliade fu sempre reticente o troppo involuto nelle sue memorie e nelle interviste, come è anche pacifico e dichiarato il suo anticomunismo. Ma a ben vedere, è il presupposto essenziale dell'antropologia di Eliade a renderlo di fatto inservibile a ogni ideologia fascista, intesa come culto dell'identità, della purezza del sangue e delle tradizioni. Tutto al contrario, la dimensione «arcaica» dell'umanità di Eliade si caratterizza per la sua fondamentale universalità. La stessa natura della ierofania la rende ubiqua, e capace di innumerevoli metamorfosi. Come sanno bene i lettori dei suoi saggi, Eliade non si sazia mai di moltiplicare gli esempi, di tessere una rete di analogie tra miti, simboli, riti appartenenti alle più diverse tradizioni. Come l'ebreo errante della leggenda, l'uomo «arcaico» o cosmico è dappertutto e in nessun luogo in particolare.
In Asia, i buddisti affermano che ogni stupa è il centro del mondo e il vero sepolcro del Budda. Dunque i centri del mondo sono potenzialmente innumerevoli; eppure, il centro del mondo è uno solo. Questa contraddizione è la legge fondamentale che vige nella geografia del sacro, del mondo-come-ierofania di Eliade. Forse si può affermare che progressivamente egli identificò sempre più volentieri l'uomo del neolitico con il soggetto ideale delle ierofanie. Ma tutto sommato, è proprio in un certo tasso di indeterminazione dell'«arcaico» che risiede uno dei punti di massima forza e suggestione degli affreschi di Eliade. Molto più di questa o quella possibile determinazione storica, lo interessa la possibilità di ricostruire un modello di pensiero, e soprattutto una concezione del tempo, radicalmente opposta alla strada «lineare» imboccata dal cristianesimo e da tutto l'occidente, con il suo culto della Storia come luogo delle verità, dei valori, dei significati. È una ricostruzione, questa, che tentò innumerevoli volte e che gli riuscì a mio parere nel migliore dei modi nel Mito dell'eterno ritorno, il saggio uscito in quello stesso mirabile 1949 che era iniziato con la sospirata e sommamente faticata pubblicazione del Trattato di storia delle religioni. Proprio nelle prime righe di questo saggio magistrale e seducente, Eliade parla generalmente di «società premoderne», quasi per lasciare più possibile libero il campo alla varietà degli esempi e alla libertà dell'interprete.

Identità dell'uomo arcaico
La sua ricerca - promette Eliade - è rivolta a stabilire cosa, in quelle cosmogonie e filosofie arcaiche, fosse dotato di autentica realtà e autentica esistenza. Ebbene, per l'uomo arcaico nulla di ciò che accade a se stesso e intorno a lui nella vita quotidiana e nello scorrere del tempo è realmente dotato di realtà. Al contrario, solo ciò che è stato fondato ab illo tempore e una volta per tutte nel mito è vero, ed appartiene all'essere. Così come, sul versante della vita umana, veri sono solo i riti, primo fra tutti il sacrificio, che rendono ancora presente quel tempo assoluto, rifondando periodicamente la realtà. Che si chiami neolitico o premoderno, che indossi le vesti dello yogin himalayano o dello sciamano della foresta amazzonica, quest'uomo arcaico non è condannato alla prigionia del tempo inteso come una linea, e un procedere da un'origine verso la fine. L'origine infatti per lui è qualcosa che il rito suscita in perpetuo, e non appartiene né al passato né al futuro, consistendo semmai in un eterno presente.
Indubbiamente, l'antropologia religiosa di Eliade, consegnata a decine di libri e centinaia di articoli e pagine di diario, è andata e continuerà ad andare incontro a una lettura limitante e a molte prese di distanza da parte degli esperti. Ma un conto è stabilire il ruolo e l'utilità del pensiero di Eliade nel campo specifico della storia delle religioni, un altro conto è puntare sul grande valore letterario, che la sua opera non smette di rivelare. E mi riferisco proprio ai saggi, molto più che ai romanzi e alle tortuose memorie. A suo modo, proprio in quanto appassionato lettore di Balzac, Eliade ha dato forma a una sua Commedia umana articolata e coerente, oltre che abitata da innumerevoli personaggi.

Un artista del proprio tempo
In tutto il '900, qualcosa di simile lo possiamo trovare solo nei libri di un altro acerrimo «nemico della Storia»: mi riferisco, ovviamente, a Jorge Luis Borges. Certo, si può sempre obiettare che Borges, i suoi miti e le sue comogonie li inventava di sana pianta; mentre Eliade i suoi li citava, attingendo a una documentazione raccolta in biblioteca, con tanto di note a pié di pagina. Ma siamo proprio sicuri che la distinzione regga a un esame più attento? In che cosa, esattamente, una vecchia leggenda tibetana o un rituale orfico differiscono dalla fantasia di uno scrittore moderno di Buenos Aires? E il professore di storia delle religioni, infine, il transfuga a vita approdato all'Università di Chicago, il mistagogo circondato dai suoi fedelissimi, il conoscitore di tutti gli dèi che non credeva in nessun di loro, non dovremmo cominciare a considerarlo, semplicemente, uno dei più geniali e originali artisti del suo tempo?

“il manifesto”, 9 marzo 2007

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