28.4.13

Nanjie, una Comune nella Cina del ventunesimo secolo (Angela Pascucci)

Questo magnifico reportage dal “manifesto” è del 2008 e ci racconta una Cina minore, forse marginale, e tuttavia emblema di una contraddizione, quella di un sistema economico che sistematicamente aumenta le disuguaglianze e nega l’egualitarismo del padre fondatore della nuova Cina, il presidente Mao, la cui immagine – seppure in forma più discreta che quarant’anni fa – è tuttavia presente in molti dei luoghi in cui i cinesi vivono e lavorano. Io non so se e come la Comune di cui si racconta abbia superato i problemi che l’articolista espone. Non so neanche se esiste ancora e tuttavia mi piace proporre una lettura che sembra confermare le tesi di Mao sull’unità (e lotta) degli opposti. La sviluppò nel celebre libretto Sulla contraddizione, in cui tentò – mi pare con successo – di coniugare la dialettica marxiana e marxista con il pensiero tradizionale cinese, nel suo caso più taoista che confuciano. (S.L.L.)
 

«Solo i folli salveranno la Cina» è scritto sui muri di Nanjie Cun. I detrattori più astiosi la definiscono «l'ultima fattoria degli animali» e una volta l'anno ne predicono il collasso sotto una montagna di debiti. Ma l'unica vera comune maoista risuscitata dell'era Deng prospera e vive ancora, a modo suo, nel cuore dell'Henan. Una lucida e razionale follia, a ben vedere.
Sulla grande piazza d'ingresso un Mao di pietra bianca alto più di 10 metri indica con la mano sinistra tesa il mondo esterno. Gesto da icona che qui ha il sapore di un atto d'accusa, accentuato dai grandi ritratti di Stalin, Lenin, Engels e Marx schierati intorno come una giuria. Il Timoniere impietrito, e guardato a vista giorno e notte da un picchetto d'onore, domina su 2 chilometri quadrati di vasti viali silenziosi e immacolati, aiuole perfette curate da pensionati alacri, schiere di palazzine bianche e basse, una moschea per 300 anime islamiche, allevamenti di anatre, galline, maiali e 26 fabbriche da cui esce di tutto: birra, spaghetti, medicinali, imballaggi, dolci.
Grande è l'ordine sotto il cielo. Non si vede un'automobile, perché il possesso e l'uso privato non ne sono consentiti. Solo fruscianti biciclette e qualche motoretta. I mototaxi del villaggio vicino ogni tanto squarciano il silenzio mentre passano strombazzando, profani e irridenti. A ore prestabilite irrompono gli altoparlanti del villaggio: «L'Oriente è rosso» al mattino, «Solcando i mari con la guida del Timoniere» al tramonto, notiziari durante la giornata . Li trasmette la radio del villaggio, che ha anche una televisione, un giornale e un sito web.
Così è scandita la vita dei 3.500 residenti e dei 10mila migranti che lavorano nelle fabbriche. Per questi ultimi Nanjie è solo un luogo come un altro. Meno barbaro, più rispettoso dei loro diritti se paragonato alla giungla che divora l'esterno, ma anch'esso interessato solo alle loro braccia. Prendono salari stabiliti dai contratti, ricevono vitto e alloggio in dormitori, lavorano sette giorni su sette e hanno due giorni di riposo al mese. Così è per il giovane operaio che controlla le rotative della stamperia dove si producono le carte da imballaggio. No, lui non è stato attirato dagli aspetti ideologici. Lì ci lavora e basta, per un salario di 1000 yuan. Altro non gli interessa, dice.
Tutto come fuori, eppure diverso. Perché la vita dei residenti del villaggio scorre su altri binari, avendo loro scelto di suddividere equamente i profitti, retribuendosi con poco danaro e un generoso welfare. Lo stipendio si abbassa tanto più alta è la posizione gererchica e il contenuto intellettuale del lavoro (chi sta al vertice prende 250 yuan, 25 euro) ma il pacchetto dei beni necessari e garantiti è uguale per tutti: casa, istruzione, assistenza sanitaria, alimentari distribuiti sulla base di razioni trascritte su un libretto. La comunità si fa carico di tutto, della vita e della morte: dal matrimonio (collettivo, celebrato una volta l'anno con relativo viaggio di nozze a Pechino) al funerale (compresa l'urna per le ceneri). La comunità fornisce tutto: dall'arredamento agli elettrodomestici, dalle pentole alle stoviglie. Lo standard dei consumi è stabilito da una trimurti costituita da Partito, governo del villaggio e management della struttura produttiva, che tutto governa.

I santi di Pechino
L'ultimo aggiornamento del livello risale al 1993 e tutto è come allora. Nessun interno è diverso dall'altro e chi di solito apre la porta di casa ai visitatori curiosi è il signor Huang Zunxian, pensionato di 71 anni, che vive con figli e nipoti in una grande casa di tre camere, soggiorno e cucina. Le poltrone e i mobili di legno chiaro, la stoffa dei cuscini, i lampadari, i quadri, le tendine, il grande orologio digitale con l'immagine di Mao giovane che si illumina di colori psichedelici alla musica di L'Oriente è rosso, tutto è come già visto nell'unico albergo del villaggio, nell'unico ristorante, nella sala riunioni. Nella Cina di oggi che celebra il culto della ricchezza personale, qui nulla appartiene al singolo. Né soldi né beni. Il motto è «promuovere il pubblico, eliminare il privato».
Passare da migrante a residente è possibile, anche se difficile. Dopo sei anni di lavoro condotto in modo irreprensibile si può fare domanda e se per tutti sei un lavoratore modello la domanda è accolta. In dieci anni solo 200 famiglie sono state accolte. Ma non è chiaro se ci sia la fila per entrare mentre il turn over degli operai è alto.
Il deus ex machina della situazione è Wang Hongbin, 58 anni, volto da adolescente invecchiato, dal 1977 alla guida della comune. E' lui che nel 1984 ha deciso di invertire il corso della storia, ricollettivizzando terre e industrie frammentate le une dal sistema di responsabilità familiare e le altre dalle privatizzazioni introdotte dalle riforme di Deng. I risultati del nuovo corso erano stati pessimi per la comunità, ma gli ci vollero cinque anni per ottenere il consenso di tutti. Alla fine, nel 1989, c'è riuscito anche grazie agli aiuti venuti da Pechino. Voglia di sperimentare più strade, fede, effetto Tian 'Anmen? Fatto sta che qualcuno che poteva ha dato un decisivo sostegno politico che si è tradotto in pressioni sulle banche affinché finanziassero generosamente l'audace esperimento, in sgravi fiscali e facilitazioni.
Ne è venuto fuori un intreccio assai ardito, fra una struttura economica e produttiva pienamente inserita nella nuova Cina delle riforme, e che di questa non potrebbe fare a meno, e un'organizzazione sociale che nei suoi principi la ripudia. Più che una comune agricola, una corporation dall'anima rossa difficilmente riproducibile su vasta scala. Ma, come dice Wang Hongbin «solo molti soldi possono rendere il comunismo migliore» e c'è chi pensa che sia questo il vero «socialismo dalle caratteristiche cinesi» inseguito dal Pcc.
Chissà che direbbe Mao a vedere il proprio pensiero cucinato in questa salsa così denghista. Shen Ganyu, responsabile della comunicazione, sorride all'osservazione ma non risponde direttamente. Lo incontriamo in una grande sala riunioni dove campeggia un gigantesco «Servire il popolo» scritto nell'inconfondibile corsivo di Mao. Per spiegare come tutto ciò funzioni espone la teoria del «cerchio all'esterno, quadrato all'interno». L'immagine richiama la cosmogonia cinese, con la sfera del cielo che circonda la terra quadrata in una suprema armonia, ma quel che viene in mente è il più occidentale «quadrare il cerchio». La circonferenza, spiega il funzionario, è il rapporto con il resto della Cina, di cui Nanjie fa parte, dove domina l'economia di mercato che consente di sfruttare lo sviluppo economico del paese per produrre con profitto. A vantaggio del quadrato interno, la collettività, gestita secondo principi comunisti e governata in modo ferreo.
Chi comanda a Nanjie Cun è una cupola ristretta costituita da 18 uomini: sette rappresentano il Partito (che li designa), quattro il governo del villaggio (nominati dal sindaco), sette la holding industriale (e sono scelti dai manager delle fabbriche). E' questo organismo che decide tutto: strategie di impresa, investimenti, campagne politiche, standard dei consumi. Wang Hongbin è sia segretario del partito che capo supremo del conglomerato industriale. Ha uno stipendio di 250 yuan al mese e gode di grande autorevolezza e stima. Per molti è la grande forza che sostiene la Comune, e forse tutto potrebbe finire con lui.
Il sistema ha funzionato, finora. Nanjie è uno dei villaggi più prosperi dell'Henan. Era, dicono i detrattori. L'esperimento avrebbe ormai i giorni contati perché le sue industrie sono in declino e le banche, in particolare l'Agricoltural Bank of China, non potranno intervenire come in passato per ripianare i debiti: norme di bilancio più severe in vista delle privatizzazioni impediscono di chiudere un occhio, anche se lo chiede qualche potente di Pechino. Il cerchio si sta incrinando e il quadrato rischia di essere spazzato via, se i profitti non affluiranno per pagare i beni che cementano la comunità.
Shen Ganyu respinge critiche e illazioni. Non nega i consistenti debiti con le banche, ma asserisce che la comune è in grado di farvi fronte. Non esalta i risultati economici delle 24 imprese, cinque delle quali sono joint ventures con società giapponesi, ma afferma che alla fine di ogni anno, al netto delle tasse, i profitti assommano a 40 milioni di yuan (circa 4 milioni di euro).

L'età degli abbandoni
Ma quanto attrae un simile modello nella Cina di oggi? Ed è in grado di riprodursi? Secondo alcuni studi Nanjie ha difficoltà ad attirare e trattenere quadri qualificati. Quanto al futuro, affidato alle nuove generazioni, l'istruzione scolastica garantita dal villaggio arriva fino alle superiori ed è nelle scuole che i ragazzi ricevono un'educazione politica mirata, che inizia con le canzoncine alla scuola materna e finisce con il marxismo leninismo e il Mao pensiero al liceo. L'università è la prova del fuoco. Secondo Shen Ganyu, mediamente il 20% delle ragazze non torna mentre solo il 10% dei maschi decide di allontanarsi dalla fin troppo tranquilla esistenza della Comune. Che ignora crimine e disoccupazione ma non ammette bar, né pub, né karaoke, né discoteche. I soli negozi sono quelli che vendono i prodotti locali ai turisti. Quando cala il buio l'unica luce visibile anche da lontano viene dalla statua bianca di Mao illuminata a giorno, nelle strade non gira un'anima e per incontrare un po' di gente bisogna andare al Centro sociale, dove ci si sfinisce in accaniti scambi di ping pong o in interminabili partite a scacchi. Certo ci si può sempre spingere fino alla vicina e tentacolare Linying ma una frequentazione troppo assidua di profani divertimenti non deporrebbe in favore dell'impegno ideologico. E il controllo della comunità è assai stretto.
Nella Cina lacerata dalle ineguaglianze sociali non meraviglia che Nanjie sia oggetto di studio e persino meta di turismo. L'anno scorso sono arrivati 400mila visitatori e i vertici stanno investendo nel settore. Ne viene fuori un curioso mix tra agrituristico e politico. C'è lo sterminato giardino botanico dalle enormi serre corredate da dinosauri di gesso (spaventosi solo per kitch) che si ergono fra palme nane e banani, cascate e ponticelli. Ma anche la ricostruzione della casa natale di Mao a Shaoshan, con tanto di mobili originali, foto di famiglia e albero genealogico. Sullo sfondo, colonna sonora che esce senza soluzione di continuità dalle casse acustiche sparse tra la vegetazione, inni epici, cori baldanzosi, canzoni popolari e melodie struggenti ispirati al Presidente, che presto sarà celebrato anche da un grande museo in costruzione.

Il buon esempio
E tuttavia dire che Nanjie ferve di passione politica sarebbe troppo, al di là delle adunate mattutine coi cori di prammatica, prima di iniziare il lavoro. Difficile anche dire con quali sentimenti chi ci abita viva un'esperienza così unica. La comune, ma sarebbe meglio definirla comunità, somiglia piuttosto a un laboratorio in cui si cerca di far convivere il diavolo del libero mercato e l'acqua santa dell'uguaglianza. Intanto due villaggi vicini hanno deciso di ispirarsi a Nanjie e stanno prendendo lezioni mentre nella Cina infiammata dalle rivolte contadine si contano almeno 1700 casi di ricollettivizzazione parziale delle terre e 8000 «comunità industriali» che agiscono sul principio della proprietà collettiva e della ripartizione egualitaria dei profitti. Nessuna però applica i principi comunisti di Nanjie alla propria organizzazione sociale. Ma «l'intenzione da sola non basta» afferma Shen Ganyu. «Bisogna capire tutte le variabili di un simile processo e per poterlo intraprendere devono esserci veri motivi di comunione, un obiettivo condiviso».
Lei Xiujuan è la nostra guida. Con una navetta elettrica ci conduce tra fabbriche e serre. E' nata in un villaggio dell'Henan, povero, sporco e arretrato, secondo la sua descrizione. Qui è arrivata 10 anni fa, con una laurea in Scienze delle comunicazioni, attirata dalle condizioni di vita. Ha un marito e una figlia, come lei residenti a tutti gli effetti. Prende l'equivalente di 45 euro al mese. Più che sufficienti, sostiene. Quel che la comunità assegna le sembra del tutto adeguato alle necessità e non desidera altro. Parla dello spirito collettivistico del comunismo, così raro oggi in Cina, e ammette che non è facile vivere in un luogo come Nanjie. «La gente che viene da fuori pensa che siamo strani». Eppure, osserva, non siamo diversi dagli altri: abbiamo un modello di governo verticistico basato sul Partito e pensiamo che al primo posto debba esserci il benessere economico, che le riforme hanno reso possibile, da ripartire in modo egualitario. Ci ispiriamo a Mao, dice, ma certo non possiamo definirci maoisti. Quelli erano altri tempi e bisognerà studiare ancora per capire come quel pensiero possa essere adattato ad un'epoca tanto diversa.
Per ora, come si legge, rosso e grande, sui muri di Nanjie Cun, «Seguiamo la nostra strada, e lasciamo che gli altri ne parlino".

“il manifesto”, 26 luglio 2008

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