3.4.13

Un capolavoro in minore. Le occasioni di Pietro Scarpellini. (S.L.L. - "micropolis" marzo 2013)

Pietro Scarpellini
E’ un volume composito quello che, per la cura di Attilio Bartoli Langeli, la Deputazione di Storia Patria per l’Umbria ha voluto dedicare a Pietro Scarpellini; dopo la premessa del curatore, ci sono un ricordo dello storico dell’arte tracciato di Enrica Neri Lusanna, un’accurata bibliografia, una galleria fotografica ove la fa da padrone, talora accompagnato da un sorriso, lo sguardo ironico e intelligente che connota l’immagine di Scarpellini dalla giovinezza alla vecchiaia. Il meglio è certamente costituito dal Cd che contiene, in forma digitale, 146 scritti dello studioso, di varia natura e misura, originariamente pubblicati sul settimanale “Il Mondo” e sulla rivista “Il Ponte”, le due testate più autorevoli di un milieu culturale e politico liberal-democratico, che senza successo aspirò ad essere “terza forza” tra la “balena bianca” democristiana e i partiti della sinistra di ispirazione marxista e operaia.
Il volume in stampa, per agevolare la consultazione informatica, fornisce un elenco degli incipit e un indice analitico dei testi, il cui arco temporale va dal novembre 1954 (un articolo sul “Mondo” a proposito di una villa romana abbandonata e soffocata da nuove costruzioni) al dicembre 2009 (un corposo intervento sul “Ponte”  in merito all’ingordigia clericale ed alla subalternità dei cosiddetti “laici”). In quello stesso dicembre Scarpellini cominciò la collaborazione a “micropolis”, ove, dopo un primo intervento sulla candidatura di Perugia e Assisi a capitale europea della cultura, curò tutti i mesi, fino al luglio successivo, la rubrica Umbria da salvare. Quella collaborazione amichevole, libera e liberale, a un mensile testardamente marxista è per tutti noi ragione d’orgoglio ed è stata un arricchimento per chi ha avuto la gioia di un contatto ravvicinato. Di Scarpellini apprezzammo il rigore nemico di ogni improvvisazione, la volontà di confronto (benché gestisse il suo spazio sul giornale in piena autonomia, esigeva una discussione preventiva su temi e contenuti del suo “pezzo”), la cultura profonda e vasta mai esibita, l’affabilità e l’arguzia. Dopo la pausa estiva, nel settembre 2010 ci comunicò dall’ospedale di dover saltare il numero. Morì sul finire del mese.
Bartoli Langeli, nella sua premessa, cita proprio da “micropolis” quella che considera “una bella sintesi di ciò per cui Scarpellini spese la vita”: “Per noi la cultura non ha altra ragione se non se stessa; nasce innanzitutto come spinta morale che deve, in primo luogo, obbedire a un’esigenza dello spirito e, nella realtà concreta, servire a tutelare i beni culturali, continuamente minacciati da tante sconsiderate iniziative”. E’ una chiave utile per gli articoli scritti da critico d’arte, anche per la fedeltà all’idealismo crociano evidente nelle tante recensioni a mostre novecentiste: l’“Arte vera” viene da Scarpellini nettamente distinta dalla “non arte”, cioè dalle provocazioni gratuite o dalle sofisticate teorizzazioni cui spesso si connettono inestetiche applicazioni. Per lo Scarpellini – con qualche eccezione - sembra valere per il Novecentismo la definizione di “fabbrica del vuoto” che Croce usava per la letteratura: da qui la dichiarata simpatia per artisti dichiaratamente “minori”, meno inclini alle mode e al bel gesto e più attenti all’onesta fatica del dipingere o dello scolpire. 
Minoritas  è la categoria scelta da Bartoli Langeli per caratterizzare gli scritti per “Il Ponte” o per “Il Mondo”, minori in quanto occasionali rispetto, per esempio, alle specialistiche monografie su Signorelli, Perugino e Pintoricchio: la peculiare minorità cui Scarpellini aspira anche per se stesso  “se ne infischia delle etichette imposte dall’industria culturale” e rifiuta “la formuletta alla moda” per “conservare come un bene prezioso la sua piccola libertà”.
Vero e giusto. Questi scritti “minori” di Scarpellini sono tuttavia un capolavoro, poiché superano di gran lunga i limiti dell’occasionalità, dell’eterogeneità e della “leggerezza” stilistica che sovente caratterizzano le raccolte di articoli. Il Nostro è infatti, prima ancora che storico e critico, scrittore, e scrittore eccellente, per una sua peculiare capacità di “vedere” e “raccontare”, per la gioia con cui conduce in giro per sale espositive a mostrarne tesori e magagne, con cui mette in pagina mene di affaristi, guerre di bottega tra intellettuali, imbrogli di politicanti, con cui rappresenta l’antica e sempre nuova voracità e ipocrisia clericale. Lo è per la misura della scrittura, semplice ed elegante, dotata di quella grazia e sprezzatura che sono difficili a farsi; e insieme ricca, capace di inglobare toscane arguzie, citazioni popolari e dotte, similitudini sorprendenti, funzionali arcaismi. Una classicità cui fa da cemento l’ironia, la capacità di dominare con la parola la materia. L’unitarietà del libro è garantita anche dalla forte tensione etica che accomuna tutti gli scritti. Non c’è distinzione tra quelli di storico e specialista e quelli “civili”. La sua lode, in un vecchio articolo (1956), dei pittori “macchiaioli” “una ricerca di schiettezza, una volontà di non fingere, di non barare al giuoco come oggi si fa dappertutto” ben s’accorda - per esempio - ai numerosi articoli in cui svela e demistifica trucchi, imbrogli e imbonimenti di politicanti arruffoni e intellettuali asserviti.
Tra i numerosi percorsi tematici che il libro-Cd su/di Scarpellini apre ne due trovo particolarmente interessanti: uno è l’Umbria da salvare, titolo della rubrica di “micropolis” e impegno cinquantennale del Nostro; l’altro i testi più propriamente narrativi, su storie antiche o attuali, alcune delle quali legate alla nostra regione, i ritratti del pittore di Terni, Bartoli, o di quello d’Assisi, Francalancia, o le sventure del Cinquecentesco Cipriano Piccolpasso, e infine la storia tra sociale, culturale e politica delle porte del Duomo d’Orvieto, un vero gioiello di costruzione e di stile, una divertente ed amara pantomina. Ci tornerò nei prossimi numeri, con articoli “dedicati”, perché credo che contengano non poche utilità e bellezze.
Voglio qui accennare invece a un filo che percorre gli scritti, brevi o ampi, di “politica culturale” e si ritrova come una sorta di leit-motiv anche in tante recensioni di mostre. Scarpellini mostra un fastidio quasi insopportabile per la “quantità” ed è critico inesorabile di quelle mostre che di un autore o di un movimento affastellano opere su opere mescolando capolavori e opere qualitative con fondi di magazzino, esercitazioni, quadri e sculture meramente commerciali senza cura e senz’anima: “meglio meno, ma meglio”, ripete pertanto ad ogni articolo, involontariamente riprendendo il motto caro a Lenin. Analogamente egli trova insensata ai fini culturali la moda del “grande evento” che con la quantità e il battage pubblicitario cerca, talora con successo, di attrarre quantità inverosimili di visitatori, sottraendo ingenti risorse pubbliche alla cura dei beni culturali e alle strutture culturali in funzione del vantaggio immediato di talune categorie economiche.
E’ uno dei problemi affrontati in uno dei pochissimi testi esplicitamente politici contenuti nel Cd, un articolo apparso sul “Ponte” dell’ottobre 2007, dal titolo Ma non ci svendiamo, che a noi appare una sorta di testamento politico. Formalmente si tratta di una replica al “dotto ambasciatore politologo Sergio Romano” che aveva spezzato una lancia in favore del nuovo partito democratico e della sua aspirazione semplificare la scena politica italiana.
Il Romano auspicava un progetto analogo nel centrodestra e lamentava il disinteresse degli intellettuali. Scarpellini si mostrava scettico su una chiamata alle armi tesa a soffocare “le voci più indipendenti, quelle che non si riconoscono nei programmi formulati nei vari centri di potere”; e ricorreva, come pezza di appoggio, a un libro importante, quello di Julien Benda sulla trahison des clercs, del 1927. Ci sono due modi – spiega Scarpellini – che si offrono ai moderni “chierici”, cioè agli intellettuali per tradire la loro missione, quello di arruolarsi negli eserciti e nei gruppi di potere che si fronteggiano per aiutare i capi a governare la massa o quello di sottrarsi alle contese, in un proprio mondo, tutt’al più esprimendo genericamente la propria opinione, ma senza scendere nel vivo degli avvenimenti. Sulla scorta di Benda Scarpellini suggerisce al “chierico buono” - l’intellettuale, l’uomo di lettere, lo scrittore - una terza via, di “intervenire sui singoli episodi, richiamando su di essi il massimo dell’attenzione consentitagli dai mezzi di cui dispone, pur conservando nel giudizio il massimo di obiettività e indipendenza”: non un rifugio nella torre d’avorio, ma un continuo, vigile confronto con la realtà quotidiana.
Questo ruolo di coscienza critica ha dei tratti aristocratici in cui io, ad esempio, non potrei riconoscermi, ma da Scarpellini è stato interpretato con onestà e rigore per tutta la vita. Egli, nell’articolo in questione, usa la politica culturale come chiave per demolire la proposta di Romano agli intellettuali: i due schieramenti sono entrambi indigeribili e sono in realtà uno solo, che considera la cultura solo in termini monetari e mercantili, di volta in volta uno spreco da tagliare o un investimento fruttifero, non un valore in sé.
Dopo una documentata requisitoria Scarpellini conclude con una sorta di profezia, che peraltro si è già verificata: “Penso che ciò valga a spiegare l’atteggiamento di delusione, di distacco di molti clercs, uomini che non vogliono diventare complici, farsi aggiogare al carro del dio denaro, e mantenere la propria libertà di giudizio, appunto come voleva il filosofo francese ottanta anni fa. Ma intanto l’orizzonte si imbuia: non credo che il fenomeno di Beppe Grillo che riempie le piazze con il suo V-day, e vuole addirittura l’abolizione dei partiti, sia da prendere sottogamba, che sia solo una sfuriata passeggera dopo la quale tutto tornerà a essere come prima. È un sintomo, per ora ancora confuso, ma che prende a scuotere la coscienza degli italiani, che cominciano a divenire consapevoli di una generale, profonda situazione di ingiustizia. Gli inventori del Pd dovrebbero tenerne conto”.
Non ne hanno tenuto conto.

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