7.4.13

Vittorio Foa. Il dovere di capire (di Corrado Stajano)

Riprendo qui dal Corsera un ampio stralcio del ritratto di Foa tracciato da Corrado Stajano nel centenario della nascita. (S.L.L.)
Compirebbe cent' anni, il 18 settembre, Vittorio Foa, uomo politico, sindacalista, scrittore, nato nel 1910, morto nell' autunno di due anni fa. Anomalo del Novecento, secolo terribile di guerre, di rivoluzioni, di violenza - il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, la Shoah, la bomba atomica - è passato attraverso la tragedia della storia d' Italia e d' Europa, ha vissuto intensamente, senza eroismi, esibizionismi, vittimismi, con la gioia di vivere e la voglia di essere dentro il mondo anche nei momenti più difficili. A ricordare i suoi cent' anni stanno per uscire due libri che sembrano quasi gli archivi della memoria di una lunga esistenza: Scelte di vita, a cura di Andrea Ricciardi (Einaudi), e Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947), a cura di Chiara Colombini e Andrea Ricciardi (Bollati Boringhieri).
Vittorio Foa ha cominciato tardi a scrivere e a scavare nel passato, diffidente del suo io e insieme narcisista compiaciuto, critico e autocritico, anche. Aveva scritto libri sul sindacato, furono Natalia Ginzburg e suo figlio Carlo a spronarlo a raccontare quel che aveva visto e vissuto nel tempo. Faceva resistenza, «non ho mai tenuto un diario», diceva dubbioso, «ho soltanto la memoria, pericolosa perché si accumula e uno ricorda i ricordi». Un gruppo di amici, Carlo Ginzburg, Vittorio Rieser, Giovanni De Luna, Pietro Marcenaro e poi Claudio Pavone e qualcun altro cominciarono allora, tra il 1984 e il 1985, a interrogarlo registrando i dialoghi. Quei testi, spiega nell' introduzione a Scelte di vita Sesa Tatò, la sua seconda moglie, sono diventati una traccia utile per uno dei libri più famosi, l' autobiografia Il cavallo e la torre (Einaudi), del 1991: «Una sorta di ricognizione sui grandi temi, riforme e rivoluzione, il "progetto", il progresso, il lavoro, il tempo, il "giacobinismo", l' eterogenesi dei fini (...), uno ieri già lontano, ma con delle intuizioni di valore universale che ci possono far riflettere sul nostro comune e recente passato».
Quelle cassette registrate sono state trascritte ora nella loro quasi totale completezza e sembrano davvero un fondaco di idee, una prova di che cosa voleva dire una volta discutere, quale serietà e passione venivano usate rispetto alla povera politica di oggi. L'altra raccolta, Scritti politici, è un prezioso documento, con un approfondito saggio dei curatori Colombini e Ricciardi. Il massiccio libro raccoglie gli articoli, le analisi, gli interventi di un pezzo di vita, gli anni Trenta e poi il 1943-1944 e, soprattutto, il 1945-1947, la Liberazione, il governo Parri, la politica socialista e quella comunista, gli albori della restaurazione, l' industria, l'economia, la classe operaia.
Nato a Torino, suo padre era avvocato, suo nonno il gran rabbino Giuseppe Foa, Vittorio è legato nel profondo alla sua città, frequenta il liceo D'Azeglio, ha tra i suoi maestri Augusto Monti e Zino Zini, collaboratore di Gramsci all'«Ordine Nuovo». Conosce allora Leone Ginzburg, forse il più intelligente del gruppo torinese, e gli diventa amico. All' università si laurea in Giurisprudenza, fa pratica in qualche studio legale, cresce nell' ambiente fervido dell' antifascismo della città sotto la Mole.
Nel 1933 aderisce a Giustizia e Libertà, nel 1935 viene arrestato per la delazione di Pitigrilli (Dino Segre), lo scrittore pornografo, agente provocatore e spia dell' Ovra… L'organizzazione di Giustizia e Libertà è smantellata.
Trascorre otto anni in prigione, dal '35 al '43, a Regina Coeli, a Civitavecchia, a Castelfranco Emilia. A Roma è in cella con Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Massimo Mila. Sessant' anni dopo sono spuntate da una cassapanca 502 lettere inviate allora ai genitori, ai fratelli, alla nonna e nel 1998 verrà pubblicato, a cura di Federica Montevecchi, uno straordinario libro, Lettere della giovinezza, quegli anni passati in carcere. Con i compagni legge, studia economia, storia, letteratura: Mazzini, Weber, Trotzkij, Croce, Silvio Spaventa, Keynes, Cavour e il Risorgimento, Lytton Strachey, Omodeo, Tocqueville. Ma legge anche Swift, Dos Passos, Bacchelli, Vittorini, Melville, Svevo, Faulkner, Moravia.
È davvero un'università la prigione, un dottorato di lunga ricerca. Si sta preparando al dopo. Sono coscienti, Foa e gli amici, che saranno loro la classe dirigente che dovrà salvare l'Italia dalle macerie del fascismo. È spiritoso, ironico. Minimizza, rassicura. Scrive ai genitori: «Il carcere non è peggio di un albergo di infimo ordine. Il tempo, la posta e i pacchi che arrivano sono i protagonisti della vita di prigione. Il salamino d' oca, le polpette, la squisita quaglietta gustata anche dai compagni, il cremino». Il lessico famigliare e gli eventi focali del Novecento sono i temi delle lettere: la guerra d'Etiopia, la guerra civile spagnola, l'antisemitismo e le leggi razziali del ' 38. E poi la guerra. E la caduta del fascismo. C'è nel libro una lettera, il 29 luglio 1943, che rivela il carattere di Vittorio:«Carissimi, avevo appena imbucato la lettera di lunedì quando ho avuto notizia della crisi di governo a Roma e della sua soluzione». Tutto qui. Con un codicillo, un moto d'abbandono:«Arrivato al termine della mia lunga e dura esperienza di galera, non ritrovo in me quella gioia smodata che l'immaginazione presagiva; ma solo un senso di grave responsabilità».
La sua vita, subito dopo la prigione e fino alla morte, è inquieta, ricca di fatti. Uomo della Resistenza e del Partito d' Azione […] eletto deputato alla Costituente, poi, allo scioglimento del PdA, deputato nel Partito socialista, dal 1953 al 1964.
Quando nasce il centrosinistra, che avversa, è tra i fondatori del Psiup. Ma la sua azione, dal 1948 al 1970, è soprattutto nel sindacato, con incarichi dirigenti nella Fiom e nella Cgil. Ha grande stima e affetto per Giuseppe Di Vittorio, «unico uomo da cui ho imparato la politica. È lui che mi ha insegnato la mossa del cavallo. Non devi battere il naso contro gli stessi ostacoli, ma aggirarli, cercare un terreno diverso dove riportare il conflitto e poter ricominciare. Di Vittorio possedeva una grande capacità di immaginazione». Nel 1972 è tra i fondatori del Pdup, un'altra delle sue ricerche a sinistra. Poi, nel 1979 gli nasce l'idea di star zitto per quattro anni: significa riflettere, per difendersi dal logoramento delle parole, per non essere costretto ogni momento a dir quel che pensa. (Ci fosse adesso qualche politico come lui capace di ritirarsi in un eremo e di non farsi più vedere dopo le sconfitte subìte).
La politica è più forte di Foa, nel 1987 viene eletto senatore nella Sinistra indipendente, non perde mai i contatti con la società, soprattutto con i giovani, dagli sconfitti del Sessantotto ai depressi del presente. È arrivato per lui il tempo della scrittura. Chi è Foa? Nel PdA è un giacobino - non potrebbe esserlo nel Psi né nel Pci - un eretico, un dissidente perenne, detesta i pessimismi di maniera convinto che qualcosa, sempre, viene conquistato. Crede nel cambiamento, si arrovella per cercare la giusta via, rifiuta la delusione, è certo che si possono ottenere dei risultati diversi da quelli sperati, anch' essi positivi.
Il comunismo è il gran rovello del secolo. Ha simpatia per Togliatti: «Era un uomo fortemente passionale, con una grande capacità di controllo. La mia debolezza è di ammirare sempre ardentemente l' intelligenza e in lui l' intelligenza era tale che bastavano poche parole per intendersi. Ero affascinato dal suo distacco, dalla sua ironia». Dei comunisti ha sempre avuto un grande rispetto, ma non è mai diventato comunista. «Tra me e loro, diceva, con la stima c' erano diversità profonde: i comunisti avevano trovato la verità, io la cercavo nel filone della libertà e dell' eguaglianza».
Foa è intransigente, ma non intollerante, non è un moralista, negli ultimi decenni si considera a tratti un vecchio saggio, ma è anche un eversore, minoritario per tutta la vita, anche se non vuole ammetterlo, con un po' di civetteria.
«Qual è, Foa, la definizione in cui si rispecchia di più?», gli chiese nel 1991 un giornalista. «Sono sempre disponibile a mettermi in discussione. Sono anche un giacobino. Sono soprattutto un pasticcio di tante cose mescolate, diverse da momento a momento». «Comprendi?» era il suo intercalare prediletto nelle lunghe e appassionate discussioni. Era quello il suo fine perenne, capire e far capire. Nella vita agì perché fosse così per molti.

Corriere della sera, 4 settembre 2010 

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