Il brano che segue, sintesi di dottrina e acume critico, è tratto dalla prefazione di una monografia di Luciano Canfora su Tucidide e risale quasi certamente al 1988. Io l’ho ripreso da un ritaglio de “l’Unità” e vivamente ne consiglio la lettura. (S.L.L.)
Tucidide |
Si potrebbero disporre come su di un altissimo albero genealogico i pensatori e gli storici che dall'età antica alla nostra hanno continuato a ripetere quel concetto che, con la dovuta enfasi, figura a conclusione del proemio tucidideo: che cioè la storia di un evento memorabile - nel caso di Tucidide il conflitto spartano-ateniese per l'egemonia (431-404 a.C.) - merita di essere narrata in quanto la sua conoscenza può e deve, anche a distanza di molto tempo, giovare alla comprensione di eventi «uguali o simili».
La nozione cui Tucidide, in quel contesto, si richiama, quella di «natura umana», non giova à risolvere la questione. E un dato, la «natura umana», più d'ogni altro ritenuto immutabile: ed è proprio perciò il presupposto della teoria tucididea della ripetizione, e quindi prevedibilità, degli eventi.
Quella mozione non figura solo nel proemio, ma anche in altri due celebri luoghi che si illuminano a vicenda: la descrizione dei sintomi della peste, che - secondo lo storico - consentirà, «se il contagio ritorna», di poterlo «identificare in tempo», e la sintomatologia della guerra civile, ugualmente ispirata al concetto di necessaria ripetizione dei medesimi comportamenti in situazioni analoghe «finché la natura umana sarà la medesima». È forse lecito chiedersi se questa espressione debba ritenersi equivalente a quelle usuali nei giuramenti e nelle proclamazioni solenni quale ad esempio «finché il sole sorgerà da Oriente» (Sofocle, Filottete, 1330), se esprima cioè nel modo più ineluttabile la fissità, o se invece contempli, sia pure remotamente - come io sarei propenso a credere - l'idea del mutamento, di un lentissimo e comunque possibile mutamento persino dei presupposti «naturali».
Ma forse non è qui la maggiore novità della riflessione tucididea, quanto piuttosto nella scoperta che dunque la politica - l'unica realtà che sembra apparire a Tucidide degna di nota e di meditazione - ha sue proprie leggi. Certo, anche questo è un portato dell'idea della ripetibilità e previsione degli eventi: altrimenti non vi sarebbero «leggi». Ma è nella concreta individuazione di ciò che tende a ripetersi (i modi della politica appunto) che consiste la novità della riflessione. Non è tanto importante insomma che Tucidide abbia scoperto che la politica ha delle «leggi», e delle leggi stabili, quanto piuttosto cercare di capire che cosa a luì sia apparso tale. Orbene egli è, per noi, il primo che abbia colto il nesso tormentoso tra parola e politica. Quei nesso onde per progressivi, magari impercettibili, spostamenti la medesima parola, detta dalle medesime persone o da persone che pretendono di parlare allo stesso modo o vogliono che si creda che esse continuano a parlare allo stesso modo, finisce col significare altro: il che risulta, in genere, tanto più chiaro quando si accostano immediatamente stadi o momenti tra loro distanti dello stesso processo. Egli è forse il primo che abbia organicamente riflettuto sul fenomeno per cui certe parole usuali nel linguaggio politico, indicanti «valori» quali amicizia, lealtà, prudenza, moderazione, viltà, coraggio, ecc. fungono piuttosto da schermo che da rivelatore di determinati comportamenti. «Vera vocabula amisimus» dirà il Catone di Sallustio nel Bellum Catilinae nel quadro di una riflessione schiettamente tucididea sullo. stravolgimento del lessico politico romano.
In ragione perciò di una così vigile attenzione allo slittamento semantico delle parole politiche, Tucidide è anche fortemente attratto dal fenomeno della «propaganda». Si sottrae però al riflesso condizionato caratteristico della città democratica e fa affiorare, più volte, la natura strumentale del ricorso, per fini di dominio, ad un patrimonio etico-politico universalmente apprezzato: ad esempio la sempre più lontana nel tempo benemerenza acquisita con le vittorie sui Persiani adoperata ogni volta da Atene come mezzo di legittimazione del predominio imperiale raggiunto dopo quella vittoria.
Ma è soprattutto il conflitto tra legge morale e «necessità» politica che occupa la sua riflessione. E questo il suo problema dominante, in quanto profondamente inerente al fatto su cui si impernia il racconto: la fine violenta di un impero, quello di Atene, costruito e affermato con la violenza. Nel suo sforzo di capire questa fine - la fine di un mondo che anche a lui parve affascinante se l'epitafio pericleo non è mero esercizio retorico - affiora sovente la percezione, appunto, della «necessità»: necessità è stata la guerra, anzi «inevitabile», perché non vi è altro modo di dirimere i conflitti tra potenze tendenti entrambe all'egemonismo; necessaria è la conclusione distruttiva per una delle due parti, perché i conflitti di potenza vengono procrastinati, non risolti, dalle paci di compromesso. Di questa «necessità» lo sguardo dello storico cerca di scorgere le leggi, affissandosi appunto non su di un flusso infinito e informe di eventi, alla maniera di Erodoto, ma su di un singolo evento, ontemporaneo e appunto perciò - secondo Tucidide – pienamente conoscibile. Ma di contro a questa scientifica ricerca di leggi che, certo, danno conto delle necessità ma finiscono col risultare limitative dell'arbitrio dei singoli, si pone - inconciliabile -, nella mente di Tucidide, l'alternativa delle responsabilità: responsabilità appunto dei comportamenti, incompatibile con l'idea che le leggi ferree e necessarie della politica trascendano, determinandoli, gli atti dei singoli.
Il dilemma ha preso, ad un certo punto, la forma di vero e proprio dialogo drammatico: un dialogo che Tucidide immagina verificarsi in una situazione emblematica: quella della grande potenza (Atene) che, per riaffermare di fronte agli avversari e ai sudditi il dominio indiscusso dei mari, deve, o ritiene di dover, assoggettare una piccola e innocua isola neutrale, Melo, gelosa appunto della propria anomala neutralità. La genialità artistica di Tucidide consiste nell'immaginare che aggressori e aggrediti discutano, totalmente assorbiti dal gioco dialettico, su ciò che sta per accadere e di cui essi stessi saranno tra breve protagonisti. È una pausa fuori dal tempo, in cui i protagonisti parlano di se stessi come se parlassero di altri: protesi unicamente al gioco affascinante di escogitare l'argomento vincente. Orbene l'aspetto inquietante di questo testo cardine è che - come nel dibattito pro e contro la democrazia, che si svolge tra Teseo e l'araldo tebano nelle Supplici di Euripide - anche qui nessun ragionamento risulta, infine, davvero vincente. Irrisolta, com'era al principio dei dialogo, resta la contraddizione tra chi, come i Melii, volta a volta si richiama alla giustizia o alla speranza o agli dei, e chi, come gli Ateniesi, porta la riflessione al punto estremo, là dove sostengono che non solo tra gli uomini ma addirittura tra gli dei vige il principio del dominio dei più forte: «Questa legge - osservano - non l'abbiamo stabilita noi, né siamo stati i primi a valercene; l'abbiamo ricevuta da chi ci ha preceduti e a nostra volta la consegneremo a chi verrà, ed essa avrà valore eterno; e sappiamo bene che anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pari alla nostra, vi comportereste come noi».
Gli dei non disturbano il sistema senza luce e senza speranza delineato dagli ateniesi. Ogni spazio concesso all'imponderabile soprannaturale, siano gli dei o il Caso poco importa, avrebbe vanificato la affidabilità delle leggi scoperte, avrebbe infranto non solo il sistema ma il presupposto stesso della conoscibilità e prevedibilità della vicenda politica. Gli dei, proprio in quanto simbolo della imprevedibilità del reale, non hanno posto in questa costruzione. E l'esatto contrario del bilancio che Erodoto, non di molto più anziano di Tucidide, traeva dalla propria riflessione sulla vicenda umana, e affidava anche lui ad un dialogo, al celbre dialogo tra Creso e Solone: dove alla fine Solone enumera a Creso, esterrefatto, i giorni e i mesi di cui è intessuta la vita media di un uomo, e conclude «nessun giorno porta all'uomo cose simili al giorno seguente». Quale formulazione più radicalmente negatrice della prevedibilità della vicenda umana, così ostentatamente affermata da Tucidide quale conquista del pensiero? (...)
E se Tucidide si fosse limitato al solo onesto dovere di "storico" ?
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