26.6.13

"L'associatu". Ovvero il mafioso comunista.(S.L.L.)

Campobello di Licata, la piazza principale negli anni 60
Per i depositari della tradizione orale del mio paese natìo, Campobello di Licata (tra sopravvissuti e cultori della materia non si supera la dozzina) l'associatu è la grande retata del prefetto di ferro, Mori, nel 1929, e il processo che ne scaturì. Quanto all'etimo ci sono due possibili spiegazioni: il termine allude al reato di associazione a delinquere o al fatto che ognuno degli arrestati - secondo l'uso dei dispacci d'epoca - veniva "associato" al carcere agrigentino di san Vito.
Nella retata, e forse anche nei processi, si usarono metodi che coinvolsero persone che nulla avevano a che vedere con le cosche. La violenza della repressione indiscriminata, del resto, lasciò tracce nella memoria collettiva di tutto il popolo siciliano. Girolamo Li Causi fu il capo comunista che con inaudito coraggio sfidò la mafia e la sua potenza di fuoco, fin nei suoi covi considerati inaccessibili; pagò col sangue (una ferita grave da cui guarì con qualche menomazione) il suo comizio a Villalba ove osò chiamare a confronto il capo di Cosa Nostra, "don" Calò Vizzini, e i suoi accoliti, ottenendone fucilate. Eppure, nella battaglia politica, fu proprio Li Causi a coniare il motto, caro a Leonardo Sciascia, "né mafia né Mori", espressione della volontà di combattere il potere criminale rispettando lo stato di diritto.
Nell'associatu, come che che sia, vennero coinvolti piccoli delinquenti (scassapagliara) e perfino alcuni innocenti che dopo alcune settimane vennero liberati; ma nella rete rimasero impigliati anche alcuni "pezzi da novanta", tra cui quel Calogero Sferrazza di cui c'è traccia in questo blog; e uno dei suoi fratelli, Rocco, che non era un capo, ma aveva a suo carico più di un omicidio. Insomma lo rinchiusero "in collegio" (così si dice in gergo), donde uscì alla Liberazione, senza di finire di scontare la pena che, se non ricordo male, era vicina ai trent'anni.
Si sposò subito, seguendo le strategie d'alleanza matrimoniale tipiche del suo mondo, con una Montaperto, Rosina credo, di quella famiglia che avrebbe espresso un capo riconosciuto della mafia, Antonino, e un sindaco e segretario provinciale della Dc, Vito figlio di Antonino, ucciso in un agguato del 1953, forse per la sua volontà di recidere certi legami.
Rocco Sferrazza nel dopoguerra non venne coinvolto in nessun fatto criminale e appariva uomo simpatico e pacifico. Per alcuni anni gestì proprio al centro della piazza un caffè, che all'apertura fece scalpore per gli specchi che lo arredavano. Per un po' di tempo funzionò anche da ristorante per i rappresentanti di passaggio che non amavano la plebea "taverna": lo zio Rocco faceva il cuoco. Ma il lavoro non faceva per lui e abbastanza presto diede quel bar in gestione ad altri.
Nei periodi natalizi, ma solo negli anni in cui i carabinieri avevano l'ordine di non far giocare d'azzardo nel circolo dei possidenti e negli altri circoli, lo "zi' Roccu" apriva una bisca assai poco clandestina, nel sottotetto della sua casa, sulla piazza principale. Funzionava un sistema di comunicazione che da tetto a tetto avvisava dei movimenti dei gendarmi e un congegno per cui rapidamente scomparivano carte, sabot e altre tracce del baccarat e altrettanto rapidamente comparivano le focacce e i buccellati per fingere un incontro festivo e festoso di amici. C'era anche un bel presepe. Quando vennero i carabinieri furono costretti a cantare Tu scendi dalle stelle insieme ai giocatori.
Nella improvvisata bisca Rocco non tenne mai banco e neppure puntava: raccoglieva la tangente che in questo caso non si chiamava pizzu, ma masciu ("mastro"), una percentuale che retribuiva lo spazio occupato, le attrezzature necessarie e l'abilità del gestore. In compenso teneva banco nelle chiacchierate in piazza, sul grande marciapiede centrale chiamato scanaturi (spianatoia). Si proclamava poeta: in carcere aveva letto la Divina Commedia che ogni tanto citava o recitava a memoria, aveva avuto a suo dire le visioni (soprattutto della Madonna) e ne aveva tratto un lunghissimo poema autobiografico, Vita e visioni di Sferrazza Li Calzi Rocco.
Mi capitò di leggerne uno stralcio dalla prima parte, Allattamento, che s'apriva con un solenne: "Latte non mi ebbi dalla mamma / causa partorienza disastrata. / Avara fu per me l'amata donna / ed anche in ciò la sorte mi fu avversa, matrigna e tiranna". Vi raccontava come "poppando or da questa or da quella", venisse in braccio a una zitella ingannevolmente prosperosa: "Piansi quel giorno, piansi amaramente / causa succhiare vanamente". Il vecchio galeotto soleva dire che Dante lo "fotteva" per l'arte, ma non per la profondità dei concetti.
Quanto alla politica credo che nel voto si comportasse come i suoi congiunti Montaperto, ben inseriti nella Dc anche dopo la morte precoce del promettente sindaco; ma nei discorsi di piazza si prendeva molte libertà e si proclamava idealmente "comunista. "Dio - diceva - non tracciò confini e non elevò siepi, diede tutto a tutti, in comune. Poi gli uomini malvagi si accaparrarono le terre, le miniere, tutte le ricchezze e si nominarono re, principi e baroni. Ma Dio, furbo, creò la notte. Creò la notte e la pistola".

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