24.6.13

Seicento. Un finto siciliano a Parigi (di Gian Carlo Roscioni)

Con un'introduzione di Guido Almansi e note di Donald Warren l'editore Sellerio pubblica nella "Biblioteca siciliana di storia e letteratura" anonima e pressoché sconosciuta Lettera di un Siciliano (pagg. 59, lire 4.000), a proposito della quale è opportuno avvertire subito il lettore di due cose: che non si tratta di una lettera, e che l' autore non è siciliano. Ciò non toglie nulla al merito dell' editore e dei curatori, i quali vanno invece lodati per aver divulgato un testo senza dubbio minore, ma tra i più curiosi della pubblicistica para-clandestina della fine del Seicento.
La "lettera" ... è in realtà una descrizione di Parigi redatta in uno stile che nel titolo originale viene definito singolare. A dire il vero, quel che sorprende nella lettera, più che lo stile (dominato, secondo una vecchia prassi secentesca, dal demone dell'antitesi), è il tono e, più ancora, l' ottica dell' osservatore. Questi, nota giustamente Almansi, non ricalca per nulla gli schemi dei libri di viaggio allora in voga - noiose descrizioni di edifici, di statuti, di cerimonie -, ma s'interessa agli uomini, alla vita di tutti i giorni. Si aggiunga che dei due mondi diversi e, per molti aspetti, opposti in cui si divideva allora la capitale della Francia - la Città e la Corte - è solo il primo ad attirare il suo sguardo: e questo già costituisce una novità di rilievo. Tanto più che egli sceglie di osservare la città, per così dire, "dal basso": non è la borghesia, le sue corporazioni, i suoi costumi, tanto dissimili da quelli della Corte, che lo incuriosiscono, ma il mondo della strada, i volti, i rumori, gli odori, in una parola, l'atmosfera "urbana".
Il "Siciliano" ha inoltre qualcosa da dire sulla città moderna - la sua Parigi, sotto questo riguardo, potrebbe essere Londra o altre città europee - che non manca di attualità: se la contrapposizione città-campagna è antichissima, esistono caratteri specifici della metropoli moderna che la distinguono dai grandi agglomerati urbani di una volta, e il "Siciliano" sembra essersene accorto.
A prima vista, la Parigi di cui ci parla non pare troppo diversa da un villaggio: i suoi abitanti si svegliano al canto del gallo, e le acque del fiume che l' attraversa sono potabili e salubri. Ma le dimensioni della città non possono non incidere sulla vita degli abitanti. Alcuni effetti sono positivi: a Parigi c'è più libertà che altrove, soprattutto per le donne che possono sfuggire più facilmente alle tiranniche leggi della vita rurale e patriarcale, fino ad assumere un ruolo sociale e culturale prima sconosciuto. Accade persino - e qui il "Siciliano" sembra un po' perplesso - che le più smaliziate riescano ad imporsi agli uomini e a comandare ai loro mariti. A beneficio di tutti vanno poi i "servizi" che una grande città è in grado di fornire, istituti scientifici, ospedali, biblioteche, teatri, ecc.
Ma accanto a questi vantaggi, quanti inconvenienti. In mezzo a tanta gente e a tanta confusione, le giornate passano, per i più, in una condizione di anonima solitudine: "Se volete vivere per tutta la vostra vita senza essere conosciuto da nessuno, basta andare ad abitare in una casa dove ci siano otto o dieci famiglie. Quello che abiterà più vicino a voi sarà l' ultimo a sapere chi siete".
Inoltre, i benefìci appena ricordati hanno il loro prezzo. Della libertà che offre la grande città, per esempio, sono soprattutto i furfanti a trarre vantaggio: "Se volete essere un uomo dabbene a Parigi solo per sei mesi, e dopo vivere da scellerato, basta cambiare quartiere, e nessuno vi riconoscerà". La degradazione dell' uomo operata dalla città appare però soprattutto dal contrasto scandaloso tra gli innumerevoli negozi "in cui ci vendono le cose di cui non si ha alcun bisogno" e il numero sterminato delle persone che vivono alla giornata, degli accattoni e degli affamati pronti a trasformarsi in malfattori: "io credo che non ci sia al mondo inferno più terribile che l'essere povero a Parigi". Vengono in mente le parole di Rousseau: "le città sono l' abisso della specie umana".
Chi si nasconde dietro il "Siciliano"? Siciliani autentici allora a Parigi non mancavano: basti pensare a quel Procopio Cultelli che nel 1689, tre anni prima della composizione della "Lettera", aveva fondato vicino alla Comèdie-Franaise il caffè Procope, destinato a diventare uno dei più importanti ritrovi della società illuministica. Ma non è tra i veri Siciliani che bisogna cercare l'autore di questa descrizione. Nella nota bibliografica della traduzione italiana si legge che Donald Warren, seguendo peraltro un' antica tradizione, attribuisce l' operetta a Giovan Paolo Marana, scrittore genovese, e autore di un "romanzo" una volta popolarissimo e oggi quasi dimenticato, L'Esploratore turco: essendomi un po' occupato di Marana e della questione, non posso che confermare, per motivi stilistici e biografici, la fondatezza dell' ipotesi. L'operazione compiuta dal finto Siciliano è del resto parallela a quella dell'Esploratore turco. In entrambi i casi si ricorre all' espediente di far descrivere e giudicare aspetti e costumi della civiltà europea da un osservatore venuto da lontano: formula che, consacrata qualche decennio più tardi dal successo delle Lettere persiane di Montesquieu, doveva diventare emblematica di quell' esotismo "politico" e di maniera attraverso il quale tanti scrittori del Settecento cercarono di propagare la filosofia dei lumi. La Lettera figura dunque tra gli incunaboli di un genere letterario fortunatissimo, e merita a questo titolo un' attenzione maggiore di quella, occasionale, che fino a oggi le è stata dedicata.

 “la Repubblica” 06 giugno 1984

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