A dargli una mano, agli esordi della carriera, era stato il titolo di «romanziere più prolifico di Francia» affibbiatogli con troppa fretta da stampatori e librai. A ben vedere, però, quel titolo Honoré de Balzac se l'era conquistato a colpi di delusioni, di rimproveri, di amici cari e fidati che lo invitavano a desistere da ogni ambizione e nei primi tempi, quasi per rivalsa, sembrava non andargli neppure troppo stretto. Proprio grazie alla fama e alle tirature dei suoi tomi, costantemente esaurite, gli sarebbe stato possibile proporre e stampare senza problemi altri libri, quelli «maggiormente impegnativi» secondo il suo giudizio e che di certo gli stavano più a cuore. Ma a conti fatti, quel «titolo» finì per nuocere molto all'autore e alle sue opere, relegate in angoli polverosi di qualche biblioteca, ma quasi mai - così ricorda la sorella di Honoré, Laure Surville «nata» Balzac, in un delizioso libretto da poco pubblicato per i tipi dell'editore Sellerio - nel posto che competeva loro, accanto a Rabelais, Shakespeare o Molière.
Per molti lettori «anche di buon livello», persino dopo la sua morte avvenuta nel 1850 (pochi anni dopo, Laure consegnerà i suoi ricordi al testo che apre il XXIV volume delle Œuvres complètes del fratello), Balzac era e rimaneva «solo il padre di Eugénie Grandet». Chi lo leggeva, amava lo «svago» che le sue opere sapevano dare, senza cogliere il disegno profondo, la traccia di una «dura» filosofia nascosta dietro la facciata di tanti quadri e tante storie di vita borghese parigina. Balzac teneva molto al sostrato speculativo del proprio lavoro, anche quando appariva segnato da considerazioni «scientifiche» sconvenienti o del tutto in controtempo. I lettori più esigenti sembravano invece ignorare tutto di lui - questa l'amara considerazione dello scrittore, ripresa e ampliata da Laure - non degnando i suoi libri neppure di uno sguardo superficiale, mentre i superficiali per inclinazione naturale o sociale vocazione si dedicavano a una lettura per nulla «esigente» del suo lavoro. Per una strana inversione, nota la Surville-Balzac, accadeva dunque che molti fra i lettori della Comédie humaine «la conoscessero meno di quelli che non l'avevano mai letta». Eppure, quel Balzac che in pubblico si mostrava come una vera e propria «macchina» mossa dall'attività febbrile e quasi maniacale dello scrivere, nell'intimità mostrava umanissimi cedimenti, dinanzi alle proprie pene economiche o d'amore. La scrittura stendeva veli ed erigeva muri, declinando le ferite della giovinezza al ritmo imposto da un continuo dissimulare. Guidato «dal genio dell'osservazione», Balzac collezionava tipi umani, «studiando le stimmate che le passioni o i vizi imprimono su tutti i volti». Da attento fisionomista, però, cercava di «nascondere con fierezza la sua miseria, per timore che lo commiserassero».
A conti fatti, scrive Daria Galateria nella sua premessa, Balzac sapeva bene che, scrivendo, si lasciano impronte digitali un po' ovunque e forse nulla, più di una pagina scritta, conserva indizi che, col tempo, tendono a riaffiorare. «Nessuno conosce il segreto della mia esistenza, e non intendo raccontarlo a nessuno», scriveva comunque Balzac a Eveline Hanska. Curvo «sotto un terribile fardello», deciso a mostrarsi forte, ribadiva che anche «interrogando chi mi sta accanto, non riuscireste a far luce su questa infelicità». Eppure è proprio a chi più di tutti gli stava accanto, la sorella Laure, cui bisogna ancora rivolgersi per cercare di decifrare «l'enigma Balzac». Rivolgersi ai suoi ricordi, ma anche alle sue cesure e ai suoi silenzi: mai una parola - per esempio - non una sola menzione per Madame Hanska, la nobildonna polacca che, verso la fine della propria vita, Balzac intendeva sposare. Ma, conclude Laure Surville, «il mio dovere verso di lui e verso tutti si ferma qui», davanti a quel silenzio, calato come una griglia nera oltre la quale «solo i forti hanno il diritto di giudicarlo come scrittore».
“il manifesto” 13.12. 2008
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