12.7.13

Donner party. Una storia americana (Beniamino Placido)

Qualche anno fa discutendo con un gruppo di studenti in una università degli Stati Uniti, mi capitò di trovarmi implicato nel solito giochino: qual è il libro più tipico, più rappresentativo dell'intera letteratura americana: La lettera scarlatta? Moby Dick, Il grande Gatsby?
Una ragazza con gli occhi smarriti, che aveva taciuto per tutto il tempo (difficile dire, dato il periodo storico, se perché trasognata o perché «fumata») mise fine alla discussione affermando tranquilla: il più bel capitolo della letteratura americana è il «Donner party ».
Non potevo sapere che proprio negli stessi anni (gli anni del Vietnam, della contestazione rampante, dell'ondata di disgusto e rigetto nei confronti del «sistema», — competitivo, acquisitivo, aggressivo —) il regista Roman Polanski (Rosemary's Baby) confessava al critico cinematografico Angelo Solmi che stava pensando a un film sul «Donner party».
La cosa più curiosa di tutto questo è che la «Spedizione Donner » non è un romanzo, non è un racconto lungo, non è una poesia, non è un libro: è un fatto. E come può un semplice fatto aspirare ad entrare fra i libri, le poesie, le commedie, le tragedie di cui la letteratura americana (come ogni letteratura) è composta?
Forse perché il «Donner party» è un fatto che promette di spiegare tutti gli altri fatti — comici e tragici, lirici ed epici — di quella storia, ivi compresi i «fatti» letterari.
Adesso che Angelo Solmi ha raccontato, basandosi su una documentazione accurata, e servendosi di una grande affabilità di stile, questo episodio semisconosciuto della storia americana dell'Ottocento (Il diavolo sulla Sierra, Rizzoli 1978), anche il lettore italiano se ne può rendere conto.

La fatale Sierra Nevada
La famiglia Donner partì — con alcuni amici che credevano nel loro progetto (87 in tutto) — il 5 aprile 1846 da Springfield, Illinois. Pensavano di raggiungere la California, muovendosi verso il West, ma utilizzando una scorciatoia che avrebbe permesso di ridurre di percorso da molti mesi a centoventi giorni, e le miglia da percorrere da tremila a millecinquecento. Non era un risparmio da poco, anche per chi come loro era fornito di tutto e preparato a tutto. Avevano armi danaro mappe provviste. Perfino un « carro palazzo » a due piani, ammobiliato di tutto punto.
Una storia del West, dunque? No, il contrario della storia del West come ci è stata sempre raccontata. Le vicende dei pionieri ci sono state presentate sempre (nella letteratura popolare e specialmente al cinema) come commedie a lieto fine. La storia del «Donner party» è una tragedia.
Quegli avventurosi pionieri era¬no sì pronti a tatto. Ma la scorciatoia — attraverso le Montagne Rocciose, il Deserto del sale e per ultimo la fatale Sierra Nevada — si rivelò una invenzione commerciale spacciata da alcuni poco scrupolosi propagandisti della «terra promessa ». Il freddo, la neve, l’inevitabile le esaurirsi delle provviste fecero della speranzosa «spedizione Donner» un naufragio. Arrivarono, dopo mesi e mesi di inenarrabili stenti, in poco più della metà. E quelli che arrivarono alla mèta non portavano soltanto — nel cuore — il ricordo dei compagni e dei congiunti morti. Portavano anche — nelle viscere — i resti mal digeriti dei compagni di cordata.
Come nell'assai più famoso naufragio della Zattera della Medusa, anche fra i componenti la spedizione del Donner party si era scatenato di cannibalismo e per quanto la carne umana sia (ecco una preziosa informazione « scientifica » che dobbiamo — anche questa — alle testimonianze dei superstiti) nauseante insipida disgustosa indigesta, ampiamente se ne cibarono, badando magari a che ognuno divorasse i parenti degli altri e non i propri (la «civiltà» impone i suoi tabù anche nelle circostanze più imprevedibili).
Adesso siamo in grado di capire cosa intendesse dire la studentessa americana, cosa intendesse fare il regista polacco: leggere — attraverso il «Donner party» — la storia del West e magari tutta la storia americana, ma alla rovescia, da «sinistra»: è stato questo il West, non quello dei film con John Wayne.
Vedete di cosa è capace la concorrenza capitalistica: di far prendere per avidità di denaro una informazione di viaggio sbagliata che costa la vita a decine di persone. E vedete di cosa è stata capace la storiografia — razzista maschilista capitalistica —: nascondendoci questo episodio della corsa verso il West, ci ha nascosto alcune verità emerse proprio per merito di questo straordinario, irripetibile «test».
Che le donne sono più forti, più resistenti degli uomini (lo prova l'ordine di arrivo: si salvarono 25 femmine contro 23 maschi). Che i pellirosse sono più civili, più rispettosi dei bianchi: le due guide indiane si rifiutarono di mangiare i cadaveri. E per punirli anche di questo, i bianchi alla prima occasione li accopparono.        
Erano anni in cui fioriva vigorosa la contestazione a tutta la storia americana, all'insegna del titolo di un libro dello scrittore negro Dick Gregory: No more lies (« Non più bugie »). Basta con le menzogne! Ditelo che i nostri Padri Fondatori erano dei teocrati intolleranti! Ditelo che gli artefici della nostra costituzione erano proprietari terrieri interessati solo ai loro interessi! Ditelo che i «liberatori» degli schiavi fecero la Guerra Civile per preparare il mercato alla grande industria! Ditelo che ii generale Custer era un mascalzone! E Buffalo Bill un imbonitore da circo!
Va bene, diciamolo. Ma dopo averlo detto (è stato detto molte volte, nel frattempo) è certo che abbiamo fatto tutto il nostro dovere intellettuale? E' certo che non siamo caduti in un'altra trappola, non meno insidiosa di quella in cui andò a perdersi la «spedizione Donner »?
In questi giorni di ferragosto, l'austero “Le Monde” ci ammonisce ad andarci piano nel celebrare (se ne abbiamo voglia) il ben più drammatico ferragosto di milleduecento anni fa (778), quello in cui Orlando a Roncisvalle difese fino all'ultimo l'onore e la dignità della Cristianità contro le orde dei barbari. Perché «naturalmente» le case non andarono proprio così.

Al di là del fiume rosso
C'era da aspettarselo. Perché quando mai le cose sono andate proprio così come gli storici (o i poeti o i narratori) ce le hanno raccontate? Hanno sempre deformato tutto, si sa: aggiustato tutto, inventato tutto. Se non che un grande scrittore dell'Ottocento francese (proprio non riesco a ricordare chi, altrimenti lo direi) ha lasciato scritto: «Tutto ciò che è stato inventato è vero».
Tutto ciò che è stato inventato (magari da una sola persona) e creduto (da molti) risponde ad una «economia », a un bisogno. E' su questo che bisogna riflettere, non sulla presunta conformità ai fatti, sempre incerti, sempre discutibili.
Perciò c'è un senso in cui è profondamente «vero», malgrado ogni prova contraria, che Guglielmo Tell ha spaccato la mela sulla testa del figlio, che Orlando ha spaccato con la spada la roccia a Roncisvalle. Così come è vero che John Wayne ha fatto attraversare felicemente il Fiume rosso alle sue mandrie dopo essersi affettuosamente accapigliato con Montgomery Clift per tutta la durata del film di Hawks.
A differenza dei bambini, che credono nelle storie inventate e raccontate dai grandi, noi ci crediamo adulti quando scopriamo la «falsità» delle invenzioni dei nostri padri. E intanto lo stesso meccanismo mitopoietico sta lavorando dentro di noi. Forse è proprio per paura di affrontarlo che passiamo   (perdiamo) il tempo a smascherare le «favole» degli altri.

“la Repubblica”, 21 agosto 1978

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