Stefano Benni, secondo me, si è imbolsito. Le sue cose più recenti che ho leggiucchiato o sentito leggere mi risultano arzigogolate e mosce. Lontanissime dallo splendore delle sue parodie sul “manifesto” negli anni Settanta e Ottanta.
Ho ritrovato un suo libretto stampato nel giugno 1978 per le Edizioni Savelli dal titolo Non siamo stato noi e sottotitolo Dalla fuga di Kappler a quella di Leone. Corsivi e racconti rappresentano “un anno di mirabolanti vicende politiche attraverso lo specchio deformante della satira”. L’anno fu davvero un anno terribile, segnato soprattutto dal rapimento e dall’uccisione di Moro, e l’arte di Benni mette in luce con una forza rara la pantomima oscena del Potere (credo che solo Sciascia riuscisse, con altri mezzi, a farlo meglio). Il pezzetto che qui conservo e, nel mio piccolo, diffondo è in apparenza leggero. Me ne sono ricordato iersera, all’improvviso, distrattamente ascoltando le disavventure dei Ligresti. Una delle parodie sembra dedicata a loro; ma nessuna delle altre soffre di inattualità.
P.S. Non è inutile ricordare quanto Benni comunica ad apertura di libro: “Questo libro è a sostegno della stampa e delle radio democratiche. I diritti d’autore vengono interamente versati al “manifesto” e ad alcune radio libere locali”. Altri tempi. (S.L.L.)
Tutti conoscono la grande tradizione operaia e contadina dei canti di lotta. E' un patrimonio che da qualche tempo è stato riscoperto con grande interesse dagli intellettuali.
Ma c'è un altro filone, altrettanto vivo e attuale, che in questi tempi politicamente incerti, sta venendo rivalutato. Sono le canzoni di lotta cosiddette padronali, cioè le canzoni scritte da industriali, speculatori, politici e truffatori nelle loro lotte di tanti anni per non andare in galera. Per drammaticità ed espressività esse non hanno nulla da invidiare a quelle del popolo.
Si veda per esempio questa bellissima Canzone del palazzinaro abusivo che si cantava negli anni '60 a Roma e che un amatore ha riscoperto in un vecchio e ingiallito registro dell'Immobiliare:
«Dieci piani ho camminato / per uffici e ministeri / a milioni soldi ho dato / a ministri preti e uscieri / ma le belle palazzine / de cemento e de cartone / fan corona al cupolone.
Dieci piani ho camminato / tra finanza e polizia / dieci piani son crollati / dicon che la colpa è mia / ma le belle palazzine / de cemento e de cartone / fan corona al cupolone.
Dieci morti in ospedale / accusato in tribunale / dieci mesi m'hanno dato / ma con la condizionale / e le belle palazzine / de cemento e de cartone / fan corona al cupolone».
Il dramma della ingiusta galera e della rischiosa vita del finanziere, è bene espresso in questo delicatissimo Canto dell'emigrante di Camillo Crociani:
«Mamma, devo partire / devo partir lontano / già romba l'aeroplano / che via mi porterà / per un po' di tangenti / date agli americani / m'inseguon come cani / giudici e inquirenti / Ahi mama ahi mama / povero me alle Bahama / ahi mama ahi mama / alle Bahama andrò.
Povero finanziere / nessuno ti perdona / come Riva e Sindona / mi tocca d'emigrar / ma se vedrai nel cielo / aerei americani / ripensa al tuo Crociani / ripensa al suo soffriiiir (acuto) /Ahi, mama, ahi mama, eccetera».
Dal dramma del povero Crociani, una canzone che i finanzieri si tramandano di padre in figlio senza pagare l'imposta di successione, passiamo ai Canti delle tasse, che sono canzoni di rivolta degli industriali lombardi sorpresi dall'indagine della finanza. Sono componimenti brevi e irosi, che gli industriali eseguivano da soli con l'accompagnamento di un mandolino, o con l'aggiunta di complessi tipici (i famosi consigli di amministrazione). Eccone uno dei più famosi:
«Finansa maledetta: / sarai la mia rovina / non c'è fuoco nel camino / nella villa in Cortina / lo yacht a Portofino / langue senza benzina / mia moglie poverina / rimpiange il suo ermellino. Finansa maledetta / il sangue tu mi succhi / malgrado tutti i trucchi / scoperto tu mi hai».
Al pessimismo disperato di Finansa, finansa si contrappone la speranza di questa bellissima ninna-nanna della Confindustria, la Banca tutta bianca di anonimo esportatore di capitali del diciannovesimo secolo:
«A Losanna c'è una banca / tuta bela, tuta bianca / c'è una cassa scintillante / che t'aspetta col contante / dormi bimbo, fa' la nanna / che i dané. stanno a Losanna / dormi bimbo, fai sorisi / anc se fora gh'è la crisi».
Terminiamo questa prima antologia di canti di lotta padronale con un brano napoletano, pieno di nostalgia per i vecchi tempi in cui il Meridione era ancora feudo democristiano: Lu traghetto. Di Cossetto-Gioia-Ferruzzi Balbi.
«Quanno spunta la luna a Marechiare
arriva lu traghetto della Finmare
tutte li pisce salgono a guardare
la Dc quanto riesce a fregare
ohi li-ohi la / ohi li-ohi la»
(la melodia sfuma dolcemente).
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