14.7.13

Grace Kelly, la principessa sul pisello (di Antonio Faeti)

Un quarto di secolo fa, sul finire di una quieta notte d'agosto, nella riposata serenità del cortile di una «Casa del popolo» della periferia di Bologna, un compagno mio coetaneo, ma già illustre e molto ascoltato, mi trafisse, quasi all'improvviso, con una breve stilettata teorico-giuridica. Non ero «di sinistra», disse il compagno e non lo sarei mai diventato, perché «amavo Grace Kelly».
La solenne e concisa sentenza, più che dura, risultò durevole: infatti non diventai mai «di sinistra» e continuai ad amare Grace Kelly. Non potevo opporre nulla, non riuscivo ad attrezzare una richiesta di appello contro il giudizio del compagno e non sono mai stato capace di farlo, anche in seguito, perché il compagno, col trascorrere del quarto di secolo, è divenuto sempre più importante, sempre più autorevole, sempre più degno di emettere motivate condanne.
Mercoledì mattina, 15 settembre, molti bambini erano tornati a scuola, molte nonne li avevano accompagnati e, quasi tutte, erano poi entrate in un bar-latteria della zona, da loro preferito perché gestito da una vecchia, per inaugurare il loro nuovo anno scolastico, ritornando a parlare di maestre, di direttori, di merende, di grembiuli, di malattie, riprendendo quindi il discorso proprio sullo stesso punto in cui lo avevano lasciato in giugno. E, dal loro dialogare, teso e compostamente drammatico, ho appreso la prima notizia della morte di Grace Kelly. Si parlava quasi solo della principessa, non ho colto neppure una vera allusione all'attrice. C'era un clima a cui mi sentivo estraneo, ma vantavo un antico (segreto) privilegio, e mi sono trattenuto a lungo.
Ho sentito una vecchia signora che diceva, secca e serena: «Era una che sapeva starci». E non precisava né dove né come, naturalmente, perché non non se ne avvertiva assolutamente la necessità. Era, per le nonne presenti, l'inveramento, il prender forma carnale di una fiaba aleggiante, memorizzata e poi sepolta, quella della «principessa sul pisello». Ho sempre pensato che la fiaba sia stata letta giustamente solo dalle nonne delle classi subalterne: la «civiltà delle buone maniere» riguarda tutti i ceti, si fonda sulla correlazione di competenze e di ruoli, di crescita nelle capacità e collocazione sociale.
Una vecchia ha detto: «Quando mia figlia ebbe il primo bambino scrisse a Grace, da allora si mandavano gli auguri, ora non si scriveranno più». Ecco, «la principessa sul pisello» è sentita come una figura con caratteristiche «di fondo» che si legano alla femminilità, al senso del rapporto tra corpi e spazi, all'eccezionalità di una metamorfosi (Grace, naturalmente, non era nata principessa, alle nonne non interessava che fosse miliardaria in partenza).
Si può nascere biondissime, poverissime, alte e con gli occhi verdi, in una comunità montana dove il tipo fisico dominante non ha nulla in comune con una simile eccezione: allora è nata una «principessa sul pisello». E l'eccezione viene spiata, colti¬vata, amata.
Questa però è la seconda parte della vita di Grace, non mi riguarda molto, ne segnalo solo l'esistenza.
Ma il mio amore per lei nasceva da componenti molto diverse (in parte già richiamate nell'articolo dedicato a Grace da Mariuccla Ciotta sul “manifesto”). Il primo movente (gli amori hanno un movente, come i delitti) si colloca tremendamente nello spessore da incubo degli anni cinquanta. Io c'ero, ahimé, e ho sofferto di tutto: i «bulli», le brillantine sui capelli, le maggiorate, i seni lattiero-caseari nati dai postumi figurali del fascismo congiunti con la carnalità degasperiana. Ho patito le donne-sorelline e le donne-madri, le perverse orrendamente «realistiche», strombazzate dalla coppia Ella Kazan - Tennessee Williams, le urlanti e discinte, le mondine epocali, le incomunicabili incipienti, le staffette partigiane, le figlie ingravidate degli operai licenziati, le signore cariche di fascino e di gioielli, le bellezze latine, le grandi donne - vampiro dei gialli, dei western, dei film di cappa e spada. E perfino lei, Marilyn, che da sola valeva tutto un catalogo di femminilità negative (almeno per me) e mi riuscì sopportabile unicamente in Giungla d'asfalto, perché dopo me la ricordai sempre solo come «miss torta di formaggio».
In questo panorama desolato la «sexual elegance» di Grace Kelly entrò di soppiatto, come una presenza tenue ma inconfondibile, che modifica l'insieme in modo quieto e decisivo. Kezich e altri parlano di «sexual elegance» e buttano lì la cosa con soavità, ma io mi sento ancora prendere dal leggero brivido che mi attraversò nel 1955 quando, nel film La finestra sul cortile, vidi attuarsi il contrasto più soddisfacente, quello che non avrei neppure supposto di poter mai contemplare. Perché c'era il cortile, il chiuso microcosmo hitchcockiano, asettico e velenoso, prossimo al delitto, pervaso di quotidiana follia, e c'era lei, Grace, accanto al fotoreporter, immobilizzato e divenuto «tutto occhio», apparsa per lottare contro la stessa bieca e omicida routine che strozzava un decennio e lo rendeva angosciamente e cupo come i luoghi del film.
Una sessualità tanto dominante, a volte, quanto celata e trattenuta in altre occasioni, un procedere per gesti lievi e limpidi, improvvisamente interrotto da uno strano sorriso totalizzante, da un'occhiata quasi perversa, perfino da movenze corporee insistentemente allusive, come nel due film Il cigno e Alta società, dove Grace è se stessa in modo straordinariamente maturo.
Il «ritorno» a lei come attrice, al suo viso di allora, alle sue ragioni, nasce da un episodio che è più filmico di altri da lei vissuti sullo schermo. Muore infatti nel dramma, come si sospettava potesse accaderle varie volte nei film.
Fu, per me, un antidoto, un contravveleno opposto alle miserie prepotenti dell'immaginario degli anni cinquanta. Isolata e fuggevole, combatté una sua strana battaglia: le cose migliori prodotte dalle comunicazioni di massa negli anni sessanta mostrano molte tracce della sua levità, della sua complessità, del suo modo di «rendere» il sesso, la grazia e l'avvenenza.
La «principessa sul pisello» è morta in un bar - latteria, tra vecchie favolistiche, con lo stesso cipiglio che avrebbe dato loro Basile.
Il torvo squartatore coi coltelli insanguinati, non la vedrà mai più, dalla sua finestra sul cortile, in una notte di bufera.

“il manifesto”, 21 settembre 1982

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