24.7.13

Il "sicilianismo" e la borghesia mafiosa (di Leonardo Sciascia)

In un suo breve saggio del 1968 (anno fatidico), intitolato Brigantaggio napoletano e mafia siciliana, Leonardo Sciascia si interroga sulla natura del banditismo dell’Italia meridionale e giunge alla conclusione che ha alla base forti inquietudini sociali, ma quando “butta in politica” inevitabilmente si sposa alla reazione legittimista e clericale. Egli trova infondate, pertanto, le preoccupazioni o gli entusiasmi di taluni osservatori coevi al fenomeno, di chi (monarchico o anarchico) pensa che la guerriglia del Sud possa sfociare nella rivolta e nel regicidio: l’unica politicizzazione possibile è la Vandea, il cardinale Ruffo. A Sciascia, peraltro, appare molto diversa la situazione siciliana, ove il contesto rende improponibili percorsi di quel tipo.
Riprendo qui il brano che argomenta tale impossibilità. Vi fa una sua apparizione – la prima mi pare nel dibattito di quegli anni - la categoria della borghesia mafiosa, su cui, nello stesso torno di tempo, con un approccio marxista, sta riflettendo Mario Mineo al circolo Labriola di Palermo (rimpolpandola di contenuti analitici la metterà al centro del documento di fondazione del Centro di Iniziativa Comunista per la Sicilia). Sciascia, contrariamente alla vulgata che la connetteva all’arretratezza e al latifondo, legge la mafia – quella storica e quella attuale – come portatrice di un’ambigua modernizzazione e intravede la sua capacità carratteristica di trarre potenza e profitto dallo stesso mutamento delle condizioni politiche.  (S.L.L.)
Come mai, dunque, non nasce un brigantaggio politico in Sicilia nonostante l'aperto disinganno succeduto, nello spirito pubblico, agli entusiasmi suscitati da Garibaldi? La ragione principale crediamo sia da ricercare nel «sicilianismo», cioè in quel complesso di sentimenti e di risentimenti, di tradizioni e di istituzioni, che per secoli avevano più o meno efficacemente contrastato ogni attentato ai privilegi del Regno di Sicilia e, nell'ultimo periodo, la politica unitaria (di unione al Regno di Napoli) dei Borboni.
Elemento importante del «sicilianismo» era l'istituto dell'Apostolica Legazia, per cui lo Stato siciliano deteneva delega di poteri ecclesiastici e religiosi: e ne discendeva il carattere non diciamo progressista, ma in un certo modo laicista del clero (e più di una memoria registra la sorpresa dei garibaldini a trovarsi accanto preti e frati). E dentro il «sicilianismo» si agitava la formazione di una categoria sociale, se non di una classe, che approssimativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa più esattamente, di cui è campione il Sedara del Gattopardo: la quale categoria vedeva nel parlamentarismo, o almeno nella macchina elettorale, quelle chances che lo Stato dei Borboni non offriva e non prometteva. In forza del «sicilianismo», insomma, le frange legittimiste e sanfediste si riducevano in Sicilia a pochi funzionari e manutengoli del regime borbonico, e ai più maldestri e ingenui per di più. A Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie, c'erano invece un'aristocrazia e una burocrazia cristallizzate intorno alla corte borbonica; un clero direttamente legato alla Curia romana; una classe borghese (sempre approssimativamente parlando) meno pronta e spregiudicata di quella borghese-mafiosa, la quale aveva capito che tutto stava per cambiare appunto perché niente cambiasse e che l'entrare nel Regno d'Italia, abdicando a certi privilegi autonomistici, avrebbe accelerato il passaggio di consegne dai gattopardi agli sciacalli su una realtà destinata per molti anni ancora alla immobilità. In conclusione: identificando il «sicilianismo» in un corpus piuttosto confuso e contraddittorio di privilegi nazionali e di classe (e compresi tra gli uni e gli altri quelli dell'Apostolica Legazia), di tradizioni, di costumi, di abitudini ritenuti perfetti e superiori (e siamo nella dimensione della follia siciliana, che tuttora esiste ed esercita un suo fascino anche sui non siciliani), non è del tutto azzardato affermare che la mafia ne fosse il risultato più conseguente al momento dell'Unità d'Italia (e oltre) e che addirittura riflettesse echi di una rivoluzione borghese limitata alla proprietà fondiaria; e da ciò la sua funzione in senso nazionale-unitario e il venir meno di quelle condizioni che davano luogo al brigantaggio nelle province napoletane. Giustamente dice Hobsbawm: « La nuova classe dominante dell'economia agricola siciliana, i gabellotti ed i loro collaboratori cittadini, scoprirono un modus vivendi con il capitalismo settentrionale ». Una classe di uguale formazione, che non aveva alcuna ragione di temere «la trasformazione del Sud in una colonia agricola del Nord commerciale e industriale», una classe così pronta e spregiudicata e refrattaria ai motivi ideali della legittimità e della fede, non esisteva nel napoletano: per cui i briganti continuarono in Sicilia a fare i briganti, e portarono lo Stato italiano a patteggiare l'ordine pubblico con la mafia stessa.
Queste considerazioni valgono, crediamo, a spiegare come le vaghe aspirazioni sociali riscontrabili nel brigantaggio diciamo napoletano, o soltanto in alcuni capi, si agitassero dentro il contesto di una fazione molto più arretrata e reazionaria (oltre che effettualmente inutile in quanto di causa persa) della mafia siciliana: e questa sarà la caratteristica di ogni brigantaggio politico, fino a Salvatore Giuliano (il quale, politicamente sollecitato dalla mafia, fu dalla stessa mafia spento quando essa trovò assestamento nella democrazia post-fascista).
1968.

In La corda pazza,  Einaudi, 1970

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