1944. La "compagnia" di Picasso |
Che quella riprodotta qui sarebbe stata una fotografia storica è probabile che coloro che vi compaiono lo supponessero già allora, in quella lontana sera del marzo 1944. Raramente si è visto immortalato un tale "parterre de rois": intorno a Pablo Picasso, nella fila in piedi, partendo da sinistra, si vedono Jacques Lacan, Cècile Eluard, Pierre Reverdy, Louise Leiris, Zanie Aubier, Valentine Hugo e Simone de Beauvoir. Seduti in terra sono invece Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Michel Leiris e Jean Aubier. Al centro, di spalle, l'unico personaggio non celebre della serata: Kazbek, il cane di Picasso.
Del resto, anche l' avvenimento che aveva dato origine alla riunione merita di essere considerato straordinario (dati i tempi). Questo gruppo di intellettuali costituì, infatti, per una sola sera, la compagnia di teatro più famosa e meno commerciale che mai sia stata formata. Poiché erano lì, in casa di Michel Leiris, sfidando il coprifuoco (nella primavera del '44 la Francia era ancora occupata dai tedeschi) per dare lettura, dividendosi i ruoli, della prima commedia scritta da Picasso: Le dèsir attrapè par la queue.
Fu, pare, una serata memorabile. Terminata la lettura, gli ospiti restarono a bere e a conversare fino all' alba, cioè fino a quando, cessato il coprifuoco, ognuno poté far ritorno a casa. Si parlò di pittura, di poesia e delle grandi speranze che erano nell' aria. "Assaporavamo un piacere così furtivo da sembrare illecito", dirà poi Simone de Beauvoir. E Sartre, scrivendone, a liberazione avvenuta, aggiungerà: "Mai la nostra libertà è stata così grande come sotto l' occupazione tedesca... Poiché il veleno nazista filtrava anche nelle nostre menti, ogni retto pensiero era una vittoria; poiché l'onnipotente polizia tentava di obbligarci al silenzio, ogni parola diventava preziosa come una dichiarazione di principio; poiché eravamo in scacco, persino i nostri gesti avevano il peso di solenni promesse".
Picasso aveva scritto la sua prima commedia tre anni prima, e in soli quattro giorni, dal 14 al 17 gennaio 1941. Ecco la sequenza della creazione, così come la descrive Roland Penrose, un biografo attentissimo ai dettagli. Quel martedì (14 gennaio) "nella sera lunga e fredda che seguì a una giornata di intenso lavoro alle sue tele, egli (Picasso) prese un vecchio quaderno e si accinse a offrire ai suoi amici una sorpresa quale nessuno si sarebbe aspettato. Con perfetto metodo, iniziò con il titolo, Le dèsir attrapè par la queue, e, per frontespizio, un ritratto a penna dell'autore, come lo avrebbe visto una mosca dal soffitto, cioè seduto al suo tavolo, con gli occhiali che sporgono dalla fronte e la penna in una mano. Quindi cominciò a scrivere un dramma che aveva concepito come farsa tragica o tragedia farsesca...". Quattro giorni dopo Picasso metteva la parola "fine" a quello che può considerarsi, in tutti i sensi, il suo primo parto letterario.
Gli amici ai quali permise di leggerlo, riferisce Penrose, lo trovarono di un irresistibile umorismo. Malgrado il successo della lettura-rappresentazione cui abbiamo accennato, in seguito Picasso si mostrò piuttosto riluttante a far conoscere la sua commedia. Permise che fosse recitata una volta, in modo assolutamente privato, nella sua villa di Vallauris; anzi in questa circostanza confezionò egli stesso alcune delle maschere che gli interpreti (fra i quali era di nuovo Camus) avrebbero indossato. Dopodiché, il silenzio.
L' editore Gallimard fu autorizzato a stamparne un'edizione fuori commercio, limitata a soli duecento esemplari, e Jean-Louis Barrault, grande amico del pittore, si vide più volte rifiutato il permesso di metterla in scena. Tuttavia, forse anche per questa congiura del silenzio, la curiosità per questo Desiderio preso per la coda crebbe continuamente, in Francia e fuori. Si sa di una rappresentazione sperimentale data dal Living Theatre, allora agli esordi, a New York. Un tentativo di messinscena al Festival di Edimburgo fallì, invece, per l' intransigenza del censore inglese (fra i personaggi c'è una donna di costumi piuttosto facili che passeggia per la scena vestita delle sole calze). A Roma, infine, Il desiderio preso per la coda fu allestito da un gruppo d' avanguardia nel 1967, nella versione di G.A. Cibotto, pubblicata da Colombo (1961): la stessa che ora appare in un elegante volumetto edito dalla Ubulibri, insieme all'altra commedia scritta da Picasso alcuni anni dopo, tra il novembre del ' 47 e l'agosto del ' 48, Les quatre petites filles (Teatro, introduzione di Renato Barilli e testo francese a fronte, pagg. 128, lire 10.000). Difficile, per non dire imbarazzante, esprimere, oggi, un'opinione su queste due commedie così particolari. Che cosa significano, rispetto ad un'idea di teatro, anche la meno tradizionale possibile? Sono l'anello di congiunzione fra l'avanguardia teatrale storica, quella che da Jarry scende per Apollinaire, Roussel, Vitrac, e la neoavanguardia del secondo dopoguerra, quella di Ionesco, Beckett, Adamov e compagnia? O, al contrario, e molto più banalmente, sono il prodotto di un ingegno deciso comunque a sbalordire, sia col pennello che con la penna?
Sono trascorsi circa quarant'anni da quando Picasso le scrisse, e le fiamme accese dal surrealismo nel periodo fra le due guerre sono ormai spente da un pezzo, anche se tracce delle loro ceneri si ritrovano un po' dovunque nell' arte contemporanea. Ma se, tanto per fare un esempio, Les mamelles de Tirèsias conservano in qualche modo un interesse storico (se non altro perché fu appunto Apollinaire a coniare il neologismo "surrealista"), i due exploits teatrali di Picasso si offrono piuttosto come curiosità stravaganti, da collocare in quello scaffale di "teatro irrappresentabile" dove già sono i "drammi" di Tzara, Breton, Michaux e Gertrude Stein.
Il desiderio preso per la coda è un seguito di scene senza intreccio, agite da personaggi che si chiamano, chissà perchè, Il Piede Grosso, Il Puntale Rotondo, L'Angoscia Magra, L'Angoscia Grassa, La Cipolla, La Torta e via dicendo. L'azione sembra svolgersi in vari luoghi, spesso non precisati (un Albergo delle Sporcizie, una Villa delle Angosce), dove questi ipotetici personaggi si spogliano, mangiano, dormono, pisciano, scorreggiano, copulano, fanno il bagno, ballano; e naturalmente parlano, anche se solo di tanto in tanto si può dire che il loro sia un dialogo. "Hai delle belle gambe e l'ombelico rotondo", dice il Piede Grosso alla Torta (la donna che si muove per la scena nuda, con le calze), "la figura sottile e le poppe perfette, l'arcata sopracciliare da impazzire: la tua bocca è un nido di fiori, le tue anche un sofà e lo strapuntino del tuo ventre un palco alle corride nell'arena di Nimes, le tue natiche un piatto di fagioli e le tue braccia una zuppa di pinne di pescecane, e il tuo nido di rondinelle è come il fuoco sotto una zuppa di nidi di rondinelle. Tesoro mio, anitra mia, lupo mio, divento pazzo, divento pazzo, divento pazzo...".
Questa non è certo "scrittura automatica"; richiama semmai quella oggettivazione critica delle associazioni mentali deliranti propugnata da Salvador Dalì (la "paranoia critica") negli anni Trenta. Oppure, per dire le cose in modo più semplice, si tratta di letterarietà allo stato puro, "macchina folle, delirante, proliferante... nonsense, associazionismo senza fili, cadavere squisito", per usare le definizioni proposte da Barilli a conclusione del suo saggio introduttivo.
Non sono mancati (e non mancheranno, c' è da scommetterlo) anche i sostenitori (il conformismo del nonconformismo è ormai una malattia sociale, anche se raramente denunciata come tale). Il citato Penrose, che si dilunga ampiamente su questo Desiderio preso per la coda, ne difende il rapporto con l' attualità (di allora, s'intende) scrivendo che "il freddo, la fame e l' amore si manifestano in una grande varietà di modi... Frequenti sono gli accenni a stufe, a caminetti, a temperature gelide, che servono solamente ad aumentare i morsi della fame. Il cibo è la principale preoccupazione dei personaggi". Che è poi il parere d' un altro lettore, fornito di ben altri strumenti d'indagine, e dal quale quindi era lecito attendersi di più e di meglio, Raymond Queneau. Scrivendone sui “Cahiers d'Art” nel 1944, Queneau sosteneva che il rapporto con l'attualità doveva leggersi in quegli accenni ai geloni, dovuti alla mancanza di combustibile e ai peccati di gola dei vari personaggi, riflesso dell' enorme desiderio di cibo da cui era afflitta l'umanità negli anni di guerra.
Il discorso vale anche per l'altra commedia di Picasso, Le quattro bambine. Anche in questa, assoluta mancanza d' intreccio. Accanto alle bambine (distinte semplicemente con un numero d' ordine, I, II, III e IV) compaiono altri personaggi, che però non parlano: becchini travestiti da satiri, centauri e baccanti, un gruppo di fotoreporter e un numero imprecisato di animali, pesci, ranocchi, uccelli, maiali, cani alati, una capra, un serpente e insetti vari, con i quali le bambine giocano. L' atmosfera è sempre molto accesa, i colori hanno la parte del leone e un fantastico lirismo avvolge tutto, con una presenza a volte stucchevole. Come nel Desiderio preso per la coda, si avverte quella che è forse la più evidente, se non l'unica, qualità della scrittura picassiana, la grande esplosione di vitalità, la fame di forme smisurate e di grandi miti sensuali (che è poi l'essenza della sua arte pittorica). Per Douglas Cooper, autore d'un bel volume, Picasso e il teatro (1967), Le quattro bambine è una commedia che si riferisce, nel linguaggio, a certe preoccupazioni private dell' autore: "A quel tempo Picasso seguiva - ne era affascinato - lo sviluppo degli istinti e delle facoltà di ragionamento dei bambini. Claude e Paloma, i suoi figli nati nel ' 47 e nel ' 48, erano continuamente con lui, ed egli si compiaceva a guardarli giocare e ad ascoltare le loro grida". Di qui, appunto, quel linguaggio che sembra evochi icasticamente quell'amalgama di innocenza, assurdità e logica fortuita (ma anche violenza e ferocia) che caratterizza la mentalità infantile. E che si ritrovano in molti quadri e disegni dei primi anni Cinquanta, dove figurano gruppi di bambini che ballano, giocano, si arrampicano sugli alberi e colgono fiori. Tutto ciò non evita, purtroppo, che la lettura di questi due testi risulti faticosa e spesso irritante. Al punto che non si può fare a meno di ricordare la frase che Picasso rivolse, con giustificata arroganza, agli artisti che tentavano di fare, come lui, della ricerca e della sperimentazione. "Io non cerco, trovo", affermò laconicamente il grande pittore. Beh, non sempre; scrivere non è dipingere.
“la Repubblica”, 14 ottobre 1984
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