14.7.13

Maestri e compagni. Ivan Della Mea ricorda Gianni Bosio

Ivan Della Mea in concerto
Gianni Bosio (in primo piano) con un amico ad Acquanegra sul Chiese
Lui mi tese la sua destra e io gliela strinsi con grande serietà: spesso i bambini quando stringono la mano sono molto seri. Lui disse serio sono Gianni Bosio un amico di tuo fratello Luciano tu sei Luigi. Aveva fatto tutto lui e mi stava bene. Aveva le dita a punta, carbonizzate dal fumo. Fumava con grande attenzione. Bergamo, fine aprile 1948, Via Pignolo 62. Ve lo ricordate quel 18 aprile?
Se non ve lo ricordate, e peggio ancora se nulla ne sapete, nulla potrete capire dei sessant'anni di storia che succedettero a quella data. Ma io non ho intenzione alcuna di far di storia e non lo farò: se la curiosità di sapere vi urge, vostra sia la ricerca affinché vostra sia la personalissima opinione. Io voglio parlare di un uomo che ho conosciuto in una Bergamo ultrademocristiana e bella da schiantare e davvero perbene, così perbene che verrebbe da dire d'una Bergamo "tra Balzer e Pater", il tutto rigorosamente noster (il Balzer era, forse è ancora, un ottimo panettone artigianale locale). Più volte, e oggi ancora, mi sono chiesto e mi chiedo che cosa ci facesse il Bosio mantovano e in buona misura già milanese di allora nelle contrade bergamasche: credo di poter dire che stesse cercando materiali e testimonianze e testimoni e contributi e intelligenze per quel “Movimento operaio” che già aveva nella testa; ma potrei dire anche che forse cercava un suo amore orobico. Insomma, il Bosio di quel primo incontro, il Gianni che camminava dritto sulle spalle con la giacca buttata all'indietro, alla paisana, quel Bosio è il mio primo Bosio.
Mio fratello Luciano e gli altri camminavano spenti e stenti, provati e incapaci di metabolizzare l'imprevista sconfitta del 18 aprile: un trionfo della Dc e della fede, assolutamente inatteso per quantità e per qualità. Ma, ribadisco, non voglio fare di storia se non per riportare una frase di Bosio che disse: dunque, mi pare che un po' tutti avevate fatto la bocca troppo buona a causa delle vittorie precedenti, dico del 25 aprile in particola e della Liberazione in generale, e dico del referendum repubblica-monarchia e dico della Costituzione italiana, ebbene sì, perché anche quella con tutti i suoi limiti è in buona sostanza una nostra vittoria...
Mi colpì, e ne ho tuttora un ricordo preciso, l'attenzione con la quale Luciano e tutti... un «tutti» dei quali ho perso memoria dei nomi, ascoltavano; dobbiamo, disse Gianni, prefiggerci lo scopo preciso e con la giusta tensione di pensare in termini politici e strutturali e organizzativi e, dunque, culturali. Faccio un esempio che può sembrare banale: tu Luciano, disse Gianni, devi poter lavorare con una macchina per scrivere perché, tu me lo dicesti, scrivendo a mano ti perdi dei pensieri, delle riflessioni per strada e perché, questo te lo dico io, i dattiloscritti ci eviterebbero la fatica di dovere interpretare i tuoi manoscritti per solito fitti fitti e minuti. Questo è un esempio pratico che ci serve per capire la necessità del cambiamento nostro, a tutti i livelli. (Di mio, debbo pur dire che Gianni Bosio ha sempre scritto rigorosamente «a mano»: per la serie delle contraddizioni in seno al popolo).

Io ascoltavo e capivo nulla ma coglievo intera la fascinazione dei compagni e soltanto dopo anni e anni mi diedi contezza dell'enorme valore politico insito nella tensione di creare le premesse di un ribaltone anche umorale per sortire dalle gnagnere della sconfitta e, dunque, dalla tendenza a crogiolarsi nella medesima. Dunque: congiunzione illativa, in quanto tale congiunge a prescindere ma, spesso, con Gianni, diventatavi segno d'una conclusione assai meditata. Episodi: avevo 17 anni e Gianni Bosio mi diede da correggere le bozze degli Scritti italiani di Marx ed Engels; consegnai dopo otto mesi otto; mi disse non sei una persona seria... è probabile risposi duro, ma sei tu che devi decidere a chi affidare certe responsabilità e questa per me era troppa; e lui, dovevi dirmelo prima e io, Gianni non sei un uomo cui sia facile dire alcunché soprattutto di lavoro, né prima né dopo... comunque io ho sbagliato... bene, disse lui, sarà dunque opportuno farti avere una copia stampata affinché tu possa capire fino in fondo il tuo errore.

Persi Gianni Bosio per anni. Lo ritrovai una sera dell'inverno 1961 a casa Leydi dove ero stato invitato, su suggerimento di mio fratello Luciano, per presentare le mie Ballate della grande e della piccola violenza... che cantai dietro un angolo, a Gianni Bosio a Roberto Leydi a Sandra Mantovani e a Umberto Eco, vergognoso io e con la voce tirata; e le cantai tutte a filo e alla fine Gianni mi disse serio che grazie a quelle ballate ora conosceva un po' meglio mio fratello Luciano e molto meglio me. Poi, una sera, affatto inatteso, venne a cercarmi al bar Giamaica, zona Brera, Milano. Cazzo Gianni, gli dissi, un po' rompi e lui mi rispose: tu pensa a giocare e stette seduto fino a partita conclusa poi mi disse andiamo e io andai, perché non so perché ma mi sembrò giusto andare e non una parola per strada e raggiungemmo la Casa della Cultura, quella della Rossana Rossanda e Gianni mi disse che dovevo ricantare le Ballate della grande e della piccola violenza e che con me ci sarebbero state due ragazze di Roma e una era la Marini che indossava un sacco a strisce blu e io gli dissi al Gianni che con quelle scappate da Rebibbia non ci cantavo e la Marini mi scaruffò la testa con occhi di mamma e io imparai a volerle bene e dopo queste cose entrai nel Nuovo Canzoniere Italiano e cominciai a lavorarci e Bosio era il mio amico e con lui ho fatto sabati e domeniche di ricerche e di osterie e di canti, anni e anni, e l'avevo come padre anche perché altro non avevo a Milano e mi faceva impazzire che non ci stavo con la testa quando si facevano le riunioni del Nuovo Canzoniere Italiano che per solito lui introduceva e poi tutti parlavano e alla fine lui diceva: dunque, anche stasera abbiamo messo e tolto le braghe al mondo e poi tutto ricuciva affinché avesse un senso e, dunque, dal senso sortisse la possibile proposta.

Sono trascorsi 56 anni, Gianni è morto il 21 agosto 1971 e io sto mica tanto bene, eppure quella piccolissima congiunzione illativa, quel dunque, mi ridà un uomo che ho amato davvero e che ancora amo; amo lui, l'acquanegrese sul Chiese mantovano, il padano irriguo; amo lui assai più della sua enorme storia politico organizzativa di «organizzatore di cultura», come ebbe ad autodefinirsi nel suo Giornale di un organizzatore di cultura. Amo lui per la sua scelta determinatissima di non comparire, mai, di non beneficiare in alcun modo, anche sul piano più che dovuto del riconoscimento politico e culturale, di alcuna gratificazione e ho il sospetto che l'Ambrogino d'oro post mortem consegnato alla vedova dal sindaco socialista Animasi, Gianni Bosio vivo l'avrebbe rifiutato, anche perché, molto probabilmente, non glie l'avrebbero conferito. Io credo che abbiano tentato di ammazzarlo davvero, politicamente e culturalmente e dunque umanamente, quella sera, in quel circolo De Amicis, il più «in» tra i circoli socialisti milanesi. Credo che non ci siano riusciti: Gianni Bosio vive nelle continuità quotidiane a Roma, a Piadena, a Venezia, nel Salento e a Sesto Fiorentino. Ci parliamo spesso io e lui a Sesto, ma lì c'è anche l'Ernesto de Martino che ha una propensione molto forte per l'interferenza e l'ingerenza: ho imparato ad amare anche lui.

"Dunque". Gianni non era simpatico. Pareva altezzoso, supponente e anche un po' alieno con quei capelli bianchissimi a trent'anni e senza essere albino. Gianni non avvicinava, no. Qualsiasi fosse il livello del rapporto che per volontà o necessità qualcuno intendesse stabilire con lui, be', doveva conquistarselo senza sconti di alcun tipo. L'ho visto trattare a pesci in faccia «quadri dirigenti romani» molto importanti del Psi e del Pci e questi ritrarsi di fronte alla sua logica durissima e gelidamente furibonda che poneva costantemente al primo posto quelle classi «subalterne» così sconosciute e misconosciute dai grandi partiti della sinistra italiana. Gianni era simpaticissimo... e può essere per dio che uno sia simpatico e antipatico!... di una simpatia a volte travolgente e questo accadeva spesso quando era tra la sua gente o tra amici veri. Gianni non era un mistico del marxismo, uno studioso sì, formidabile anche nel cercare il nesso tra il marxismo classico e la nascita di un paleocomunismo con evidenti ma misconosciute componenti libertarie, da Pisacane a Cafiero e alle leghe contadine e alle Società di mutuo soccorso, con qualche Cristo «socialista», che girava tra le campagne e negli scioperi.

Gianni era juventino di provata fede e amava moltissimo il ciclismo. Nel corso di una importantissima riunione della componente bassiana che doveva concludersi con la stesura della bozza di un documento politico che fosse la sintesi del discusso fino a quel momento lì e che chiedeva il cambio di direzione ai vertici del Psi... Basso al posto di Nenni e i numeri politicamente c'erano a favore della sinistra (1956, vado di memoria), Gianni juventino e mio fratello milanista si chiusero nella camera matrimoniale di Gianni e assistettero a un imperdibile Milan-Juve; e mi faccio testimone del fatto che Gianni sapeva tutto quello che c'era da sapere sulla scienza calcistica, anche le parti non contemplate dai classici del marxismo, e che era dotato di una capacità di palleggio e di un tocco di palla ambidestro degno d'un taca la bàla brasileiro.

Io credo di essere la persona meno indicata per parlare di Gianni perché me ne strafotto di qualsiasi obbiettività, perché la cosa di lui che più mi offendeva era quando non si accorgeva o fingeva volutamente di non accorgersi di quanto io gli volessi bene; anche in quel 2 dicembre 1967 che ci divise. Dopo la scissione, uscendo dalla sala della riunione, rispondendo alla moglie che gli diceva «abbiamo perso Ivan», Gianni, tranquillissimo, rispose: tornerà. Dunque, nel maggio del 1971, dopo anni, tornai a casa di Gianni: un caffè, davvero soltanto un caffè perché nulla c'era da dire più del fatto che io fossi lì, in casa sua, come centinaia di altre volte. Poi, il 21 agosto Gianni morì. Mi ha lasciato il suo dunque: l'ho caro.

“il manifesto”, 28 luglio 2004

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