A volte scherzo sui nomi e sugli aggettivi e dico di sentirmi “socialdemocratico”, come il Lenin che decise e ordinò la Rivoluzione d’Ottobre, e non “comunista”, come il Lenin che si trovò a gestirla. Ma, a ripensarci bene, il comunismo del Novecento non è uno dei tanti nomi che ha assunto l’idea che i poveri, gli ultimi prendano il potere e realizzino l’uguaglianza, è molto di più. È il tentativo (l’illusione forse) di rendere quella idea carne e sangue, è la scommessa di metterla alla prova della storia, alla prova della stessa fragilità degli uomini, facendone partito, stato e governo, con tutti i rischi del potere, di ogni potere.
E pertanto io mi dichiaro comunista, proprio comunista, mi considero propaggine, magari insignificante, di una storia che è stata grande, se non altro per il numero di persone che ha coinvolto. Di quella storia, nel mio piccolo, porto con me tutti gli errori e gli orrori, tutte le tragedie e le speranze. E anche tutte le glorie, perché non è storia di puro potere, ma di rivolta, di organizzazione e costruzione, di fraternità e compagnevolezza.
Mi dichiaro comunista perché comunismo non è solo ragione, ma anche passione: la passione che non controlli, il desiderio che non si arrende e anzi si esalta di fronte alla scomparsa o all’inconsistenza del suo oggetto.
Certamente esagero - magari è un malanno della psiche o un difetto della complessione - e, per fortuna, questo delirare, questo “uscire dalla linea” non mi accade tutti i giorni; ma oggi che la solitudine mi porta a riflettere su tante storie di donne e di uomini, patisco come mia la passione che immagino essere stata loro.
Ne nasce verso di loro, verso me stesso, un sentimento complicato. Pietà per gli errori e gli orrori, orgoglio per l’impresa grande, inaudita che abbiamo tentato, sofferenza per l’impossibilità di comunicarla. Nel mondo dello sfruttamento, dell’oppressione e dell’inganno, che si è consolidato dopo la nostra sconfitta, non troviamo parole che siano comprensibili per chi è arrivato dopo. E non vuol sentir parole chi ha rimosso la propria storia per fuggire dolore o vergogna.
Ne nasce verso di loro, verso me stesso, un sentimento complicato. Pietà per gli errori e gli orrori, orgoglio per l’impresa grande, inaudita che abbiamo tentato, sofferenza per l’impossibilità di comunicarla. Nel mondo dello sfruttamento, dell’oppressione e dell’inganno, che si è consolidato dopo la nostra sconfitta, non troviamo parole che siano comprensibili per chi è arrivato dopo. E non vuol sentir parole chi ha rimosso la propria storia per fuggire dolore o vergogna.
Arriveranno altri giorni, credo, altre ribellioni, altre sfide. E forse qualcuno cercherà di leggere dentro questa storia, cercherà le forme e le parole di questa passione collettiva e individuale e si ribellerà di fronte alla dannazione della nostra memoria. Forse storici di tempi migliori reagiranno all’involgarimento che si è fatto del nostro sogno, rappresentando l’aspirazione a cambiare la vita come mera pratica di potere. Ma oggi, a sentir parlare di comunismo come se ne parla, talora proprio da chi ha da perdere solo le catene, viene voglia di urlare.
Anch'io, sempre più convintamente.
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