4.7.13

Per l’Italia e per il Duce. Un diplomatico a Salò (Nicola Tranfaglia)

L’articolo di cui è qui postata gran parte aveva come titolo originario … che a Salò io voglio andar. Fu pubblicato su “la Repubblica”, ma nel ritaglio in mio possesso mancano indicazioni di data. L’anno è quasi certamente il 1982, quello di pubblicazione del libro di cui si ragiona. (S.L.L.)
 
 
Devo confessare subito di aver letto con molto interesse e discreta curiosità il diario che l'ex ambasciatore Luigi Bolla ha pubblicato sotto il titolo Perchè a Salò - Diario dalla Repubblica Sociale Italiana (Bompiani) con una prefazione che vorrebbe essere «dissacrante» di Giordano Bruno Guerri e una lunga introduzione dell'autore: che, a distanza di quarant'anni dai fatti, cerca di raccontare e spiegare come e perché nell'autunno 1943 seguì Mussolini e i tedeschi al Nord invece di andarsene al Sud i con gli alleati e lo screditato governo del maresciallo Badoglio. Devo anche aggiungere che il diario di Bolla merita un po' di attenzione per varie ragioni. La prima è che non ci rimangono molte 1 testimonianze dall'interno della repubblica di Salò che adottino la prospettiva tipica delle pagine di Bolla: che siano cioè al tempo stesso il resoconto di un funzionario che lavora per Mussolini e le osservazioni amare di un uomo che è stato fascista, identificando con il regime (e in particolare con il dittatore) la sua personale fedeltà alla patria nazionalisticamente intesa.
In anni ormai lontani avevamo letto le memorie degli irriducibili «nostalgici»: di Cione, il filosofo crociano «convertito», di Amicucci, direttore del “Corriere della Sera” nel peggiore momento della sua storia, di Pettinato, il giornalista che si,era conquistato la fama di anticonformista rivolgendosi a Mussolini con il celebre editoriale «Se ci sei, batti un colpo». Oppure i retroscena un po' squallidi raccontati dai giudici e dai poliziotti del processo di Verona, o le avventure deliranti della Decima Mas.

Il culto del capo
Il diario di Bolla si discosta da questi scritti e fotografa una situazione diversa: quella di un giovane che del fascismo ha assorbito alcuni «valori» (soprattutto l'ideologia nazionalistica e il culto del capo) dedicandosi con grande passione alla carriera diplomatica, e che, nell'estate del '43, fa una scelta coerente con quei valori e non invece legata a calcoli opportunistici (mettersi in salvo e passare a quegli alleati che fino al giorno prima erano i nemici dell'Italia fascista). Tutto il diario mostra con chiarezza come per il diplomatico non potesse porsi allora il problema di una scelta contro il fascismo proprio perché Bolla, pur con tutte le sue critiche e parziali riserve, aveva fino allora creduto al progetto di un «popolo nuovo» e di una «nuova Italia», «forgiata» — come si u-sava dire — da Mussolini.
Rispetto a questo fatto fondamentale, che il diario testimonia in ogni pagina (almeno fino a quando la morte di Mazzolini, capo del ministero degli Esteri a Salò, non fa cadere in Bolla le ultime illusioni), l'altra motivazione che il diplomatico avanza nel diario per giustificare la sua scelta pro-Salò appare a dir poco debole. Bolla afferma che andò al Nord per aiutare gli italiani contro i tedeschi, e che in generale la repubblica sociale ebbe una giustificazione in questo senso. Ma proprio le cose che si raccontano nel diario provano quanto poco una simile motivazione fosse realistica: di fronte a qualche diplomatico e a qualche militare salvato da Mazzolini e dai suoi collaboratori, ci sono le mille atrocità della guerra civile e della sopraffazione sempre più folle e incontrollabile dei nazisti prossimi alla disfatta (di cui l'autore parla troppo poco).
Naturalmente, quando prese la sua decisione, Bolla non aveva tutti gli elementi di conoscenza di cui oggi disponiamo. Sapeva, certo, che la maggioranza dei gerarchi fascisti aveva abbandonato Mussolini la notte del 25 luglio, che il re lo aveva costretto alle dimissioni e poi arrestato affidando a Badoglio il governo legittimo del paese. Ma questo non bastava al giovane diplomatico che, con tutta evidenza, non credeva neppure alla possibilità di una scelta tra fascismo e opposizione al fascismo. La sua critica all'intervento in guerra e all'alleanza con Hitler restava interna al regime ed egli si sentiva funzionario di un Ministero degli Esteri che non poteva non trasferirsi al Nord, seguendo Mussolini nella sua ultima avventura.
Ma al di là di tutto questo, Perché a Salò merita attenzione anche perché nella prefazione di Guerri in maniera più esitante e contraddittoria, nell'introduzione di Bolla in maniera più netta e chiara, il libro propone una tesi che finora era stata confinata alla memorialistica fascista e che ora invece aspira ad ottenere una dignità storiografica. La tesi è che tra il '43 e il '45 la patria si poteva servire sia dall'una che dall' altra parte: con Badoglio, ma anche a Salò. Guerri, è vero, ricorda a se stesso e agli altri che «l'alternativa di quel momento era tra fascismo e antifascismo e la decisione prioritaria e più importante era la lotta al fascismo»; ma poi circonda l'affermazione di tali e tante variabili, che quasi si è indotti a dimenticarla. Bolla non ha di questi problemi e lo dice più apertamente: andare a Salò era sgradevole ma utile, se non addirittura necessario.
Ora bisogna dire in tutta franchezza che così si corre il rischio di confondere questioni diverse e per nulla comparabili tra loro.
Sul piano della vicenda individuale di Luigi Bolla e di molti altri che in quel momento per ragioni varie (l'ideologia fascista che avevano abbracciato, il luogo in cui si trovavano e così via) andarono a Salò, il problema non è quello di stilare una condanna o pronunciare un'assoluzione. C'è soltanto da capire, al di là dei diari e delle memorie, le ragioni esplicite e quelle implicite di una simile scelta, per analizzare meglio tutto il dramma legato a quella sanguinosa guerra civile. Ma su un piano più ampio di analisi storica complessiva, la tesi rispolverata nel volume è, a dir poco, fragile. Allora si combatteva, non soltanto in Italia, una lotta mortale pro o contro il Reich di Hitler: e per combatterlo non c'era che da andare con gli alleati e con i partigiani. Vie di mezzo non ne esistevano.

Quelle mani piccole e vizze
Detto questo, la testimonianza di Bolla conserva un suo innegabile interesse, forse più per ciò che riguarda l'atmosfera che non gli avvenimenti di quest'ultima, macabra stagione dell'avventura fascista. «Dal 1937», scrive l'autore in una pagina che è sintomatica del tono che pervade tutto il diario, «non vedevo più Mussolini da vicino... Ne ho ricevuto un' impressione di profonda pena. Il Duce è l'uomo in cui abbiamo creduto, per il quale abbiamo combattuto e servito con assoluta dedizione perché in lui, per anni, moltissimi giovani come me avevano riposto non dico le speranze, ma la certezza di un avvenire migliore per il nostro popolo... Fisicamente si è rimesso, ma le mani sono piccole e vizze e lo sguardo rivela la presenza costante di uno strazio intimo, malgrado che i suoi occhi sprizzino ancora delle scintille». Siamo al 12 dicembre 1943 e il fascino del dittatore sta declinando. Eppure, a leggere le pagine successive del diario di Bolla, la distinzione tra gli errori del capo e le malefatte dei suoi ministri e aguzzini è sempre presente. Il mito del Duce è duro a morire, anche quando Salò sprofonda in una vergognosa disfatta al seguito delle SS.

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