Ricordate il sogno pieno di spavento descritto alla fine de La tregua? Primo Levi comincia a farlo appena tornato a casa dal campo di concentramento di Auschwitz, alla fine della guerra. Gli pare di trovarsi in mezzo a persone care, a tavola o al lavoro o in campagna. Ma poi tutto cade e si disfa. Ben presto, intorno a lui, è il caos, un gran nulla grigio e torbido. La conclusione ci paralizza il cuore. Sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all' infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa.
Un racconto senza distrazioni
Questo, ripeto, ne La tregua, edito nel 1963. Ma tutto il libro precedente, quello che aveva fatto di Levi uno scrittore di interesse mondiale, Se questo è un uomo (pubblicato per la prima volta dal piccolo editore De Silva nel 1947), è un racconto totale, ininterrotto, senza distrazioni, di quell' esperienza che ha nome Lager. Lager nazista per un antifascista, un partigiano combattente. Ma, forse più ancora e con risonanze più vertiginose, Lager nazista per un ebreo. All' inizio di Se questo è un uomo Levi parla di fortuna per essere stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, quando la scarsità di mano d' opera e la cattiva piega che prende per loro la guerra obbliga i tedeschi a tenere in vita il più a lungo possibile la merce-uomo. E una seconda fortuna saranno, nel gennaio del 1945, la rapidissima avanzata sovietica e gli attacchi aerei alleati che costrinsero i suoi aguzzini a fuggire senza liquidare i loro schiavi. Se non avesse avuto queste fortune, Primo Levi oggi sarebbe un nome oscuro nella lista di milioni di innocenti massacrati da un odio che ormai operava solo per automatismo maniacale.
Levi fu tante cose, oltre che uno dei pochi scrittori italiani contemporanei in cui il dente del tempo troverà ben poca materia da spolpare. Fu, lo abbiamo già detto, un antifascista, e non di sole chiacchiere o scopertosi tale solo dopo il crollo del regime, ma della prima ora, e dimostrandolo coi fatti. Fu un chimico, e dicono gli esperti di molto valore. Fu inoltre sempre più inclino a ribadire: soprattutto un ebreo: figlio di quella terra di Canaan, di Palestina, di Israele… E' pericoloso, anzi spesso fazioso, parlare di caratteristiche nazionali o etniche. Ma credo che, senza forzare, qualche carattere distintivo dell'ebraicità classica Primo Levi lo avesse, e in versione pregiata. Per esempio, la dimensione della memoria. Il popolo ebreo, fin dai primordi biblici, ha sempre avuto la passione di ricordare. E' per ricordare sempre e senza rimedio, senza scuse che una miriade di scrittori ebrei (ispirati o no da Dio, questo è un altro, non certo trascurabile problema) compose il poema multiplo della Bibbia. Il sogno che ho riferito all'inizio lo dimostra: in forma inconscia e ossessiva, ma non meno in forma consapevole e serena, Levi si è dedicato sino all' ultimo giorno di vita (penso solo al suo recentissimo processo al passato I sommersi e i salvati, in cui salda il cerchio iniziato con Se questo è un uomo) all' inesorabile missione del ricordare: ricordare per sé, insegnare agli altri come si ricorda, come non si dimentica.
Ma l'ebreo non si accontenta di ricordare passivamente. Da Giobbe sino a Freud, l' ebreo ha sempre preteso di capire: si tratti di un deus absconditus che ti castiga senza apparente perché, della nostra psiche coi suoi antri segreti, delle leggi misteriose che regolano la società (Marx) o il cosmo (Einstein).
Ossatura biblico-religiosa
Primo Levi ha cercato di capire e di far capire come possa, l'uomo europeo civilizzato del XX secolo, degradarsi al più basso livello morale della sua storia, facendo dello sterminio gratuito, della tortura scientifica, dell'abbrutimento dei suoi simili la propria prassi e il proprio ideale. C'è riuscito? Nessuno sonderà mai il mistero del male: non di quello spicciolo, figuriamoci i Lager! Ma Levi è andato quanto più oltre si poteva nell' intravedere qualcosa di quella ghigna buia compiaciuta di se stessa. E, se non altro, l'ha descritta come meglio non si potrebbe. L'ebreo che ricorda e capisce (o cerca di capire) è portato, da sempre, a testimoniare. In questo senso, ogni ebreo che si rispetti è un profeta. Levi fu un profeta laico con antica ossatura biblico-religiosa. E fu, certissimamente, testimone autorevole, anche se col tono sommesso e il sorriso timido di una persona riservata. Forse la sua più bella testimonianza fu proprio questo non alzar la voce, questo non maledire quando anche una pecora urlerebbe o maledirebbe. Tuttavia non era un testimone imbelle. La dolcezza di Gesù con l' impegno politico dei Maccabei, verrebbe voglia di dire, se miscele di questo tipo ci aiutassero a comprenderlo. Fu immolato, anche se non subito fino alla morte. Non se ne compiacque, come tanti narcisi e masochisti di svariati olocausti. Lo avrebbe evitato volentieri. Ma gli era andata così. Seppe, con intelligenza israelitica, trarre vantaggio dalla più negativa delle esperienze. Vantaggio spirituale, psichico, etico, intellettuale, storico. Fu la sua risposta a Hitler e ai vari Hitler che albergano in ciascuno di noi. Così l'immolazione che dovette subire diventò per lui uno strumento di comprensione dell' uomo, una via obliqua verso una nuova dignità, una cote su cui affilare il cuore e la mente, un crogiolo di purificazione (ma tenuta quasi segreta per evitare ogni retorica). Alla fine si trovò fratello, più di quanto mai potesse sapere all' inizio, di un altro immolato vincente: Franz Kafka. Colpa nostra Non a caso negli ultimi anni si era messo a tradurlo, e con sorprendente congenialità. Ma oltre Kafka, come non ricordare un altro scrittore ebreo, Paul Celan, che si annegò nella Senna tanti anni dopo essere scampato alla morte in un Lager? L'olocausto, forse, continua. Primo Levi ha fatto tutto ciò che poteva per evitarne degli altri. Sarà colpa nostra, non sua, se l' uomo si ostinerà a non capire.
“la Repubblica”,12 aprile 1987
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