11.7.13

Questioni di stile. La morte di Camilla Ravera (Rossana Rossanda)

Camilla Ravera
Camilla Ravera si è spenta — a novantotto anni ci si spegne, la vita fluisce via quasi senza uno strappo — proprio mentre si faceva un grande e perlopiù dissennato parlare del passato comunista. Quello che lei ormai più di ogni altro rappresentava. Non so se ne abbia saputo qualcosa, ma se sì, non penso che ne soffrisse. Avrà misurato ancora una volta la distanza, l'incapacità odierna di sentire il suono di quella storia, la traduzione delle tragedie d'Europa in un mediocre «horror». Poco più giovane, avrebbe scosso la testa e sorriso; forse sapeva da un pezzo che la vicenda dei comunisti di allora non è comunicabile, che è lontano il tempo nel quale uno storico voglioso di capire la cercherà con mano attenta.
Di questa lontananza aveva un senso non drammatico. Ne parlava sapendo di parlare a gente molto diversa. …Una conversazione che ebbi con lei giusto dieci anni fa la rende più dei suoi libri. I quali sono un'altra Camilla, molto rigorosa, molto documentata, molto attenta a frenare quel sorriso che deve aver sempre avuto e certo il maturare aveva reso ancora più frequente. Questa donna, il cui viso e il cui corpo invecchiavano senza cadute, nobilmente prosciugandosi attorno all'esile struttura ossea — era sempre stata minuta e snella — è stata a un certo punto il comunismo italiano degli anni duri, il dirigente del centro interno, quello in trincea. Che hanno a che vedere con lei le marionette di cui si va parlando in giro ?
Era nata ad Acqui nel 1889, aveva cominciato a Torino, e la conversazione qui riportata ricorda quegli anni. Poi sarebbe stato il fascismo, la clandestinità, il carcere ; nel carcere l'esclusione dal partito, la riammissione dopo la guerra : era di quelle persone che non esibiscono le ferite, e pareva dunque che tutto fosse serenamente rifluito. Io non so.
Non avevo potuto conoscerla quando contavo qualcosa nel Pci, né a Milano né a Roma: nel 1963, quando ci venni, era già un poco appartata. Quando fui cacciata dal partito non so che cosa pensasse, e quando, dieci anni dopo, andai a trovarla avevo in me un dubbio su come questa militante tutta d'un pezzo mi avrebbe accolta. Avrebbe potuto dirmi: io ho sopportato molto più di te senza scalpitare, e il tempo mi ha dato ragione.
Non mi disse nulla di simile. Abitava in una strada dalle parti del Viminale, una casa ottocentesca e un po' scura, fra modesti e lucidi mobili e i soprammobili che tutti dovevano essere ricordi. Poi entrò, come sempre vestita di chiaro, gli occhiali leggeri, uno scialletto di lana luminosa, molto composta, molto torinese. Aveva la mano fresca e ferma, la voce fermissima e una memoria senza incrinature, e mi parve che di me sapesse tutto — l'essenziale. Mi accolse senza smancerie ma con una sorta di affetto, di una che sa che cos'è un partito comunista ed esserne separati. Poi parlammo e parlammo, due ore, e nel finire tenne a dirmi le ultime parole che ho raccordato nell'intervista: l'invito alla pazienza, perché la storia è una fatica degli uomini, lunghissima. Non era una predica, era una constatazione, di qualcosa su cui non serve urtare ciecamente. Un modo di consolarmi, ma appena e senza enfasi.
Chi descriverà questi comunisti della sconfitta del dopoguerra e delle grandi crisi? Su di loro passarono tutte le speranze e l'annientamento di tutte le speranze. Camilla aveva ventotto anni ed era maestra quando di iscrisse al partito socialista e pochi di più quando gravitò attorno all' “Ordine Nuovo”. Nel giorni di Torino di cui parla, bisogna immaginare una figuretta trentenne e un poco impertinente. A trentatre anni dirige La compagna, che tirava quindicimila copie, fatto da un partito che di iscritte ne aveva 400. Forse, le donne di oggi in cerca di una genealogia femminile dovrebbero andarselo a vedere, salvo decidere che Camilla non era una donna, ma non essendo neanche un uomo non fu né sostanza né accidente.
Partecipa alla fondazione del partito, alle sue lotte interne, stima Bordiga ma starà con Gramsci, del 1923 è il primo ordine di arrestarla. I comunisti sono ormai clandestini, e perdipiù in difficoltà con l'Internazionale: Camilla Ravera entra nell'esecutivo del partito. Nel 1926 é alla riunione dove, per l'esecutivo dell'Internazionale, partecipa Humbert Droz (e cui non può partecipare Gramsci - quella sulla famosa lettera a Stalin). Lei è «Micheli» (la polizia cercherà a lungo un uomo) che dirige negli anni più tremendi, quelli della «svolta», il Centro interno. Sarà arrestata nel 1930 per una spiata. Confinata a Ventotene e là sarà esclusa dal partito, come Terracini. La caduta del fascismo la farà tornare ad Acqui, sola, a cercare contatti con la resistenza. Il rientro nel partito avverrà dopo.
Vien da pensare alla sua vicenda interiore e ai suoi giorni non tanto negli anni in cui sgusciava dalle mani dei fascisti, incapaci di immaginare in quella donna ancora giovane il leader del partito più odiato. Viene da pensare al tempo della esclusione in carcere, quando non era facile capire se e quando sarebbe finito il fascismo; a quel rientro ad Acqui nel 1943, sola, mentre il suo ex partito si riformava dovunque.
Queste solitudini e un senso forte dell'autonomia, nel dopoguerra vissuto in modo militante ma già appartenente ad altri — il partito nuovo era davvero pieno di gente nuova, nuove giovani donne che non sapevano né avevano il tempo di voltarsi indietro — devono averla segnata. Ma, quando la incontrai, mi parve che tutto fosse stato elaborato come in chi ha vissuto grandi cambiamenti, e in essi relativizza anche sé, molto sapendo e nulla concedendo. La milizia può essere molte cose; anche uno stile, come in lei, riservato e sapiente.

“il manifesto”, 15 aprile 1988

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