27.8.13

I fratelli Grimm, le fiabe e le comunità (di Jack Zipes)

Nello scorso novembre 2012 la celebrazione italiana del secondo centenario delle Fiabe dei fratelli Grimm si svolse all’Istituto Goethe di Roma con un discorso dello studioso americano Jack Zipes, di cui “La Stampa” ha ripreso alcuni stralci. Quelli che qui sono “postati”. (S.L.L.)


Ciò che affascinava o imponeva ai Grimm di concentrarsi sull’antica letteratura tedesca era la convinzione che le forme culturali più pure e spontanee - quelle che tenevano insieme una comunità - fossero quelle linguistiche e che bisognasse rintracciarle nel passato. Essi ritenevano inoltre che la letteratura «moderna», per quanto assai ricca, fosse una creazione artificiale e in quanto tale incapace di esprimere l’essenza genuina della cultura del Volk, che scaturiva in modo spontaneo dalle esperienze degli individui e li teneva insieme. Per questo dedicarono tutte le loro energie alla riscoperta delle storie del passato. E per questo il loro amico, il poeta romantico Clemens Brentano, chiese loro di raccogliere ogni genere di racconto popolare con l’intento di servirsene per un volume di fiabe letterarie. Nel 1810 essi gli inviarono 54 testi che per fortuna ricopiarono. Dico per fortuna, perché Brentano finì col perdere il manoscritto nel monastero di Ölenberg in Alsazia e non utilizzò mai quei testi. 
Ma nel frattempo i Grimm continuarono a raccogliere le fiabe da amici, conoscenti e colleghi, e quando capirono che Brentano non avrebbe più utilizzato il loro manoscritto, decisero di seguire il consiglio del comune amico e autore romantico Achin von Arnim e di pubblicare la loro raccolta, che nel frattempo era arrivata a comprendere 86 storie - quelle che per l’appunto pubblicarono nel 1812 e cui si aggiunsero le altre 70, che pubblicarono nel 1815. Queste due raccolte costituirono la prima edizione, corredata di note e prefazioni scientifiche.
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Pur non avendo ancora del tutto formulato la loro teoria del folclore e malgrado le differenze esistenti tra Jacob e Wilhelm - quest’ultimo avrebbe poi infatti optato per una più decisa revisione poetica dei testi raccolti - i fratelli si attennero in sostanza al loro intento originario dal principio alla fine del lavoro sui Kinder-und Hausmärchen: recuperare i resti del passato. In senso più generale, i Grimm cercarono di raccogliere e preservare come gemme sacre e preziose ogni genere e tipo di traccia del passato, vale a dire racconti, miti, canti, favole, leggende, epopee, documenti o altre forme di creazione - dunque non solo fiabe. L’intento era di rintracciare e cogliere l’essenza dell’evoluzione culturale e dimostrare come la lingua naturale, che sgorgava dai bisogni, dagli usi e dai rituali della gente comune, creasse legami autentici e contribuisse a modellare le comunità civili. È questa una delle ragioni per cui definirono la loro raccolta un manuale educativo (Erziehungsbuch), in quanto le fiabe richiamavano ai valori basilari dei popoli germanici e degli altri gruppi europei e l’uso di raccontarle aiutava gli individui a far luce sulle loro stesse esperienze.
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I Grimm cercavano di valorizzare e sostenere la necessità di raccontare storie per creare legami tra gli individui i quali, proprio attraverso il racconto, mettevano in comune le proprie esperienze. Erano convinti che ogni storia e ogni sua variante fossero importanti per mantenere viva la tradizione culturale. Essi rispettavano la differenza e la diversità e allo stesso tempo affermavano che «lo scopo della nostra raccolta non era solo servire la causa della storia della poesia. Il nostro intento era che la poesia insita in essa producesse un effetto, quello di procurare piacere ovunque possibile, diventando perciò un manuale educativo».
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Se c’è un’edizione delle fiabe dei Grimm che meglio rappresenta gli intenti e gli ideali che essi perseguirono fino al 1857 è senz’altro la prima, poiché essi non ne cesellarono né rifinirono le storie come fecero nelle successive edizioni. In esse riusciamo infatti a percepire distintamente le voci dei raccontatori da cui i Grimm le ricevettero e in questo senso le storie, alcune anche in dialetto, sono più autenticamente popolari e genuine, benché talvolta non esteticamente gradevoli come le versioni poi rifinite. In altre parole, i Grimm lasciarono parlare le storie stesse in un modo assai schietto se non proprio grossolano, il che dona a esse quel senso di verità pura e semplice o quel valore educativo voluto dai Grimm.
Soffermandosi sulle fiabe della prima edizione, la prima cosa che il lettore potrà notare è che molte storie furono eliminate dalle successive edizioni per varie ragioni, non narrative, ma in quanto sprovviste dei requisiti voluti dai Grimm, che in prima istanza si sforzavano di pubblicare fiabe di chiara origine tedesca. Per esempio, Il gatto con gli stivali, Barbablu, Principessa Pel di topo e Okerlo furono considerate in seguito troppo francesi per essere ripubblicate. Più tardi i Grimm capirono che questo era un criterio sbagliato, perché era e resta impossibile conoscere le origini certe delle fiabe popolari. Malgrado non sia oggi possibile sapere con certezza perché alcune fiabe furono poi omesse o spostate nelle note, di altre come La Morte e il guardiano d’oche sappiamo invece che venne levata per i suoi tratti letterari barocchi; La matrigna, per la sua natura frammentaria e brutale; Gli animali fedeli, per la sua derivazione dal Siddhi-Kür, una raccolta di fiabe della Mongolia. Col tempo, via via che continuavano a raccogliere varianti provenienti da fonti orali o scritte, ricevute da amici e colleghi, i Grimm rimaneggiarono alcune fiabe della prima edizione combinando le diverse versioni, sostituendo altre con le nuove e spostando altre ancora nelle note di commento.
La seconda cosa che il lettore potrà notare nelle fiabe della prima edizione è che molte di esse sono più brevi e incredibilmente diverse rispetto alle versioni pubblicate nelle successive edizioni. In esse c’è un sapore di oralità e di materia viva. Raperonzolo, per esempio, svela di essere rimasta incinta del principe; la madre di Biancaneve, e non la matrigna, vuole uccidere la sua bellissima figlia per invidia. In terzo luogo, il lettore noterà subito che tutte queste fiabe sono scarne e poco o per niente descrittive. L’enfasi è tutta sull’azione e sulla soluzione dei conflitti. Chi le racconta non mena il can per l’aia. È propenso a comunicare le verità che conosce e anche quando ci sono di mezzo magia, superstizioni, trasformazioni miracolose e brutalità, crede nelle sue storie. La metafora traccia una mappa della realtà di chi ascolta e spinge le persone a imparare dai simboli in che modo affrontare le loro realtà.


“La Stampa”, 30/11/2012 

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