18.8.13

Il Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz (Gesualdo Bufalino)

Per la ripubblicazione del celebre Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz (1982) la casa editrice Sellerio ottenne un’introduzione dello scrittore Gesualdo Bufalino, che qui riprendo. (S.L.L.)

Vi sono libri che vivono il proprio destino senza sorprese, senza sussulti, col respiro d'un fiume calmo. Altri esibiscono meandri, mulinelli, cascate, sabbie mobili; un anno sono in secco, un altr'anno straripano; non si sa dove hanno la fonte e la foce. Altri, infine, come monumenti in un pantheon, vengono tanto coperti di corone e d'orpelli che quasi non si vedono più.
A quest'ultima specie appartiene probabilmente Quo vadis?. Poiché il suo successo subitaneo, clamoroso per quei tempi, e la sua promozione a modello della romanzeria archeologica, e la sua capacità di divulgare mitologie di spiccia evidenza, tutto questo concorse a fargli crescere addosso efflorescenze e maschere che altrettanto incoraggiano il lettore quanto scoraggiano il critico. Compromesse nella memoria dei più dalla insidiosa imagerie cinematografica, le vicende di Vinicio e Ligia, di Ursus e Petronio, han finito col disporsi in figura di sfarzoso balletto liberty, con programma di bicipiti e seni, cene trimalcionesche, gladiatori morenti, apostoli in posa, Neroni completi d'ugola e lira...

Il gigante buono
Tutto un album di cartoline squillanti che ha messo in ombra ogni originaria intenzione di testimonianza e di profezia, dissimulando sotto le pompe circensi il tema, scottante e pudico, della sventura nazionale, della Polonia-Ligia perseguitata, della Polonia-Ursus invincibilmente ribelle. «I miei Ligi li ho presi perché abitavano fra l'Oder e la Vistola. Mi è caro pensare che Ligia fosse polacca», così Sienkiewicz nell'aprile del 1895 al conte Tarnowski, suo amico e patrono letterario, lo stesso al quale si deve la verisimile ipotesi che in un episodio del libro quel bisonte inchiodato a terra dalle sole mani del gigante buono rappresentasse in realtà la ferina Germania e il suo furore domato (la Germania, sì, ma non solo la Germania. Di altre nazioni il nome bruciava le labbra, impronunciabile, la Polonia non è mai stata libera di scegliersi i suoi nemici...).
Ora non si vorrà insistere troppo su questo risarcimento, ma è certo che Quo vadis? s'intende solo a metà se non se ne confronta l'ispirazione con la precedente Trilogia, dove la saga nazionale aveva trovato misura epica al vento dei grandi spazi sarmatici. Qui questo vento non soffia se non nella nostalgia degli espatriati in catene, ma abbastanza da commuoverci, prima che ci decidiamo a cercare altrove le più ovvie attrattive del libro: nell'energia oleografica e nel puntiglio erudito (un'alleanza strana, che funziona, però) con cui si rivisita il quotidiano di una civiltà e di un costume sepolti; nell'ingranaggio di topoi e clichès narrativi e nel suo tempismo infallibile; nel debito pagato alle emozioni del turista di rovine col gremire di martiri e belve i colossei deserti su cui s'era esercitato a piangere il giovane Araldo.
Vero è che queste pagine puntano su un'accoppiata di ambi: occidentale e indigeno, popolare e letterario. Furono scritte a Roma, a Parigi, ma con un cuore che ricordava. E mentre sono costruite come un copione da grand spectacle o una corrispondenza del nostro inviato all'incendio di Roma, non sgarrano poi di un centimetro fuori della solenne tradizione europea. Qualche data ci aiuterà: non tanto quella della Fabiola wisemaniana (1855) o della Callista del cardinal Newman (1856), quanto altre, viciniori. Quo vadis? è del 1895-6, i medesimi anni di restaurazione antiquaria in cui Pierre Louys risuscitava (Le canzoni di Bilitide, 1894; Afrodite, 1896) una manieristica Eliade erotica, mentre Merezkowski in Giuliano l’Apostata (1896) coglieva il senso di tragica lacerazione che nella storia dell'uomo s'accompagna alla morte degli Dei e all'avvento di Dio. Erano vecchi di pochi decenni Gli apostoli di Renan, la Storia di Roma di Mommsen, Cesare e Galileo di Ibsen; di un solo decennio Mario l'epicureo di Walter Pater. Senza contare, non dico i parnassiani, ma gli stessi decadenti, dei quali Huysmans(Controcorrente, 1883) esaltava Petronio scrittore; D'Annunzio (Qualis artifex pereo!, 1883) provava a incarnarsi in Nerone; Verlaine (Languore, 1884) si riconosceva simile all'Impero moribondo che vede passare i grandi barbari bianchi e compone frattanto acrostici pigri...
Come dire che Sienkiewicz si muove in un'aria di succhi e spezie allettanti. Tanto più gli va dato merito d'esserne rimasto sostanzialmente immune. Il suo Petronio, nello stesso tempo quando Von Gloeden fotografava i ragazzetti di Taormina in mollicci travestimenti fauneschi, mantiene un'esemplare misura in bilico fra cinismo e malinconia. Che se anche il suo rapporto con Vinicio, talora da incubo a succubo, può far pensare per un momento a un'altra coppia meno innocente, Lord Enrico e Dorian Gray (di tre anni anteriore, Il Ritratto è del 1892), è subito chiaro che nello scrittore polacco il tema dell'amicizia virile si pone in termini di rivincita morale all'interno di un mondo ormai putrefatto: è, in un certo senso, l'unico cristianesimo che Petronio si possa concedere. Le sue battute («Alzarsi presto è un'usanza da barbari», «Da quando sei diventato cristiano hai smesso di ridere»...), il suo meticoloso snobismo, il deplorevole vezzo di odorare verbene e di spargere viole sulle schiave spogliate, non c'ingannino troppo, Sienkiewicz s'è letto il Satyricon, ma s'è postillato anche Tacito.

Fanciulla in pericolo
Quanto all'altro motivo cruciale del romanzo, della fanciulla virtuosa in pericolo, anche qui Sienkiewicz sfiora con intelligente negligenza l'ambiguo, a mezza strada fra De Sade e Manzoni. Ligia è, beninteso, personaggio esangue, finché recita con compunzione la sua parte di «Psiche cristiana», ma qualche minimo tremito non manca d'intrigarne l'invulnerabile illibatezza. Aggiungendosi poi al suo fianco la presenza forzuta di Ursus, è naturale che scatti, con tutte le sue taciute implicazioni perverse, la canonica diade della bella e la bestia, della grazia e la forza, e che qualche goccia d'inatteso veleno si versi nell'acquasantiera.
Scherziamo, si capisce, tanto per cercare di rivitalizzare con la nostra malizia di posteri una materia di cui si teme l'inerzia. E alla quale parrebbe difficile accostarsi senza risentire nelle orecchie, da un remoto palcoscenico, la crudele sconsacrazione di Petrolini: «E Roma risorgerà più bella e più potente che pria!»; senza risorridere, come già nella prima lettura, mill'anni or sono, per certi nomi di scarsa maestà (Corbulone, chi era costui? Come può un generale romano chiamarsi così!); senza temere che la baracca si sfasci in polvere con le sue ambizioni messianiche e apologetiche, le gigantografie di cartone, le Suburre, i palazzi... Salvo poi a scoprire, dopo poche pagine, che l'odore di catacomba e museo ci appassiona, e che la macchina va, felicemente ignara che un giorno dovrà servire a De Mille. Allora, medicina o placebo che sia, la verità e l'errore, la giustizia e l'infamia, i buoni e i cattivi ritornano a duellare e ci piace guardarli dal nostro palco di prima fila. Sacrosanto, nutriente privilegio dei best-sellers! Poter dare panni e voce a qualunque nostro ingenuo ideale di destrezza, vigore e virtù; poter saziare e assolvere taluna mortificata sete d'eroico! Non altrimenti i divi dello sport e della scena innamorano, ed è laudabile cosa, i camionisti e le casalinghe. E D'Artagnan, Fantomas, Sandokan vincono infaticabilmente ogni giorno in milioni d'occhi avidi eg iovani...

Di Vinicio e Ligia si sa: l'autore assicura che vivono felici e contenti in una villa mediterranea, mentre Ursus ai loro piedi risogna in un boschetto di mandorli le antiche querce del Nord.

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