11.8.13

Mao, un monaco nella rivoluzione culturale? (Edoarda Masi)

Questo intervento di Edoarda Masi fu letto il 13 dicembre 2007 alla Biblioteca comunale di Terni nel quadro di un ciclo d'incontri intitolato Memorie della pace perpetua. Ragione e rivoluzioni in Europa, organizzato da Marco Celentano dell'Università di Cassino. 
L’ho ripreso da “L’ospite ingrato”, la rivista on line del Centro Studi Franco Fortini di Siena, ove è stato postato qualche mese fa, nel marzo 2013. (S.L.L.)


Quando diciamo anarchismo dovremmo distinguere almeno fra due orientamenti di pensiero - che pure si trovano a volte intrecciati nei singoli individui. Da un lato c'è una posizione politica; dall'altro, un tirarsi fuori dalla politica. Per esempio, il Gesù di Nazareth che dice «date a Cesare quel che è di Cesare», e che si lascia condannare a morte pur di non essere implicato nella resistenza ai romani, si tira fuori dalla politica. Propriamente politici sono in generale i movimenti anarchici nell'Europa dell'Otto-Novecento.
Gli anarchici cinesi del primo Novecento si ispiravano a questi ultimi, specialmente agli esponenti pacifisti o pacifici, come Kropotkin. Ma gli interpreti cinesi, e ancor più gli storici non cinesi, hanno individuato nel pensiero taoista un precedente indigeno di quell'anarchismo.
Senza dubbio i grandi taoisti dell'antichità, ma anche il taoismo medioevale, esprimono un pensiero politico - tutto il pensiero cinese è politico: un pensiero olistico che sempre si vuole tradotto in prassi sociale. E senza dubbio, fra le "cento scuole" che fiorirono fra il VI e il III secolo avanti l'era volgare, il pensiero taoista si affermò come l'antitesi-complemento più valido e durevole all'altra maggiore scuola, quella dei letterati (noi europei diciamo confuciana), che produsse la dottrina ortodossa del potere istituzionale.
Tuttavia mi sembrerebbe una forzatura, o una superficialità, attribuire tout-court al taoismo (sia antico che medioevale) la qualifica di anarchico. Infatti nella dialettica combinatoria propria del pensiero cinese, l'ortodossia dei letterati e il taoismo non solo non si escludono ma si sostengono a vicenda, quali aspetti opposti e compresenti di una stessa realtà. Non solo, ma quando dall'alto medioevo si diffuse in Cina il pensiero buddhista, prodotto di una diversa civiltà e di un diverso modo di pensare (essenzialmente metafisico), all'inizio del secondo millennio dell'era volgare i letterati arrivarono a una visione sincretistica in cui sono presenti le diverse tradizioni di pensiero, a rigor di termini inconciliabili. All'interno di questo sincretismo si verificarono nel corso del secondo millennio le divisioni di scuola e i conflitti di idee (a volte colorati politicamente).
Il rinnovamento politico-culturale che, iniziato negli ultimi decenni dell'Ottocento, si sviluppò poi nel Movimento per la nuova cultura, si valse largamente, e strumentalmente, delle correnti di pensiero provenienti dall'Europa. Le personalità più vivaci della generazione di Mao Zedong, mentre per un verso si nutrivano della tradizione culturale cinese, si impegnarono nell'acquisizione di tutti gli elementi via via per ciascuno disponibili del pensiero europeo a partire dall'Illuminismo - soprattutto nella ricerca di alternative al dispotismo e alle teorie che lo sorreggevano. Per quanto ne sappiamo, Mao fu influenzato in gioventù sia dal neokantismo sia dall'anarchismo kropotkiniano. A Changsha, capitale dello Hunan sua provincia natale, dove le correnti anarchizzanti avevano una certa diffusione, ebbe come maestro un professore anarchico, Yang Changji, del quale sposò la figlia (che in seguito fu catturata e uccisa dalle truppe del Guomindang). In una raccolta di suoi scritti del tempo sulla «Rivista del fiume Xiang», traspare fortemente un'influenza kropotkiniana, specie nell'incitamento all'associazione entro e fra le diverse categorie oppresse che compongono il popolo. Molti anni più tardi ritroveremo un'eco esplicita di quello spirito di rivolta giovanile non solo in alcuni versi, ma anche nelle conversazioni con i giovani nei mesi che precedono la rivoluzione culturale. C'è il riferimento al popolo e ad un tempo, fortissima, l'affermazione del diritto-dovere dell'individuo a ribellarsi contro chi detiene il potere, seguendo i dettami della propria ragione.
Non per questo, né per alcune frasi nella famosa intervista a André Malraux, possiamo dire che Mao sia stato un anarchico. La sua formazione teorica, per quanto riguarda la componente europea, si è arricchita in seguito di molti altri elementi, a cominciare dalla lettura di Marx e di Lenin (anche se fu tutt'altro che un adepto del Soviet Marxism di cui scrive Marcuse); per non parlare della sua assunzione delle più alte cariche dirigenti di uno stato che non si proponeva l'anarchia neppure come meta lontana.
In realtà, quella di Mao è una personalità anomala.
Nella storia dell'Eurasia si incontrano figure di capi rivoluzionari e di intellettuali oppositori radicali del potere - tanto più in Cina, dove dall'antichità fino a tutto il XIX secolo il potere si è identificato col dispotismo. Più volte i capi della rivolta, vincitori, hanno assunto essi stessi il potere; e ne sono nate nuove dinastie, senza che la struttura politico-economica di base venisse sostanzialmente mutata: potevano cambiare quelle che il marxismo designa come "forze produttive" prevalenti, non il sistema fondato su una classe dirigente letterata che si imponeva sul popolo soggetto. Negli anni che precedono la rivoluzione culturale gli storici cinesi affrontarono in lunghe dispute il problema del carattere rivoluzionario o meno delle rivolte contadine e popolari che si sono susseguite nel corso della storia del loro paese. L'ala sinistra degli storici condusse una critica estrema nei confronti degli storici accademici su un ovvio principio del progressismo: valutare in termini positivi le classi dirigenti di ciascun periodo nei confronti di quelle precedenti, da esse spodestate; e ammettere un'ascesa e fioritura della civiltà come prodotto del loro dominio. La sinistra si opponeva alla cosiddetta "teoria delle forze produttive", secondo la quale le condizioni rivoluzionarie si profilano quando i rapporti di produzione sono inadeguati allo sviluppo delle forze produttive (spesso intese riduttivamente come condizioni scientifico-tecniche). Si opponeva alla visione che privilegia la classe dirigente letterata come capace di riportare ordine e ricomporre ripetutamente l'equilibrio là dove c'è stata rottura e disordine.
Quale capo rivoluzionario, Mao assume dal marxismo il concetto di "lotta di classe", nel senso di spaccatura (oggettiva, prima che soggettiva) della società in due poli fondamentali a un tempo opposti e interdipendenti. Nell'analisi di Marx, lavoro e capitale. Su questo punto essenziale, Mao assume il marxismo e, basandosi sulla dialettica combinatoria della tradizione cinese, estende il significato di "lotta di classe" al di là del rapporto fra capitale (industriale e finanziario) e classe operaia, quale si manifestò in un periodo storico determinato, e pone quella polarizzazione come agente storico permanente: fra sfruttatori, o detentori del potere, e sfruttati, o assoggettati. Da questa concezione viene anche la risposta al perché abbia promosso la rivoluzione culturale pur prevedendo la probabile sconfitta: la contingenza del pericolo grave per la parte con cui si è solidali è un motivo di più per rischiare (non per malinteso eroismo ma semplicemente per coerenza). Questo comportamento (insieme con altri di Mao) è la negazione della politica, e in sostanza denuncia la politica come falsità.
La politica è riferimento allo stato (la polis ne è la forma prima e più semplice), implica la dimensione del potere esercitato per conto di tutti e su tutti, è il momento unificante, quello dei «due che si riuniscono in uno» (Secondo uno slogan largamente diffuso (e contestato) alla vigilia della rivoluzione culturale) ad opera, appunto, del potere. Il mito della democrazia ateniese, che percorre la storia d'Europa, arriva al suo apice con l'idea prima illuminista poi socialista, del potere esercitato dal popolo, è lo scoglio contro cui si infrange la rivoluzione francese, e infine - nonostante tutto il pensiero critico marxista - ogni tentativo di socialismo. Il partito-stato dei paesi socialisti non è, come vorrebbero gli accademici della destra e il pensiero unico, la continuazione-ripetizione del dispotismo: è il risultato del tentativo utopico di mettere insieme lotta di classe e politica, condizione di oppressi e potere. La ricerca della "classe per sé" - cioè degli oppressi che divenendo coscienti di sé assumano il potere - conduce alla dialettica perversa dei rappresentanti degli oppressi che assumono ed esercitano il potere in proprio. E' la tragedia del leninismo (anche quella personale di Lenin, meravigliosamente interpretata nel film di Sokurov).
E’ anche la tragedia di Mao Zedong, a un livello ulteriore: Mao tenta di combinare i due ruoli, quello della lotta di classe (rivoluzione continua, fino alla rivoluzione culturale) e quello della politica (l'esercizio del potere). Resta solo. «Solo, con le masse», aveva detto a Malraux. Ma le masse, ancora una volta, non sono state quelle del mito democratico.
L'anomalia di Mao sta in questa duplicità: essere detentore del potere statuale al massimo livello, e ad un tempo continuare a proporsi come leader rivoluzionario, quello che incita all'assalto del "quartier generale". Quanto era già potenziale in Lenin (praticamente ridotto all'impotenza e condotto alla morte prima che i termini della contraddizione si esplicitassero appieno) si realizza con Mao. La chiarezza è facilitata dai precedenti storici in Cina, dove potere e possesso-esercizio della cultura superiore si identificano. Per cui il problema dell'esercizio del potere politico degli uni sugli altri si intreccia con quello della disuguaglianza, anche culturale. Un grande passo avanti rispetto anche a Stato e rivoluzione.
Per quanto concerne Mao, la rivoluzione culturale è stata una proposta necessaria di anarchia da parte di chi ne conosceva in partenza la più che probabile sconfitta.

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