22.8.13

Palazzeschi. La scrittura e il suo doppio (Folco Portinari)

Aldo Palazzeschi in divisa militare
Quando ci si trova davanti a una mole di circa tremila pagine sotto la voce Tutti i romanzi di Aldo Palazzeschi, raccolti in due tomi nei «Meridiani» Mondadori, non si sa per quale scelta di lettura optare. Mi leggo tutto il malloppo? O mi rileggo quelli che con maggior godimento, d’antan, riemergono dalla memoria? O gli altri, piuttosto, per una eventuale correzione di giudizio? Così, buridanescamente, il primo tomo resta chiuso.
A meno di incominciare, secondo logica procedurale, dal lungo e sottile saggio introduttivo di Luigi Baldacci e dall’altrettanto lunga e giustamente acribica introduzione (con scrupolosissimo apparato critico) di Gino Tellini - destinati entrambi da oggi a diventare un punto di riferimento.
A meno di adattarmi, data la natura di questo spazio, a un compromesso. Ciascuno di noi ha delle cose, storicamente intese, una visione condizionata da fisiologiche distorsioni (miopia o presbiopia per esempio) o da disposizioni passionali, emotive, soggettive che inducono a simpatie e antipatie.
Non è un metodo critico apprezzabile, ma dobbiamo farci i conti. Poi c’è la scienza computistica delegata ai bilanci. Inforco gli occhiali correttivi e dico in piena convinzione che le poesie di Palazzeschi, tra i Cavalli bianchi e l’Incendiario sono ancora sottovalutate rispetto alla glorificazione delle triadi incoronate, così come quelle di Rebora.
Sempre utilizzando gli stessi occhiali dico che il meglio della narrativa palazzeschiana è tutto raccolto in questo primo volume (tranne l’Interrogatorio dirottato nel secondo), forse in coincidenza temporale con le poesie, sovrapponendosi e interrogandosi reciprocamente. Con le Sorelle Materassi in bilico tra sì e no, che nel mio caso è dovuto alla sorpresa che mi procurò la lettura di sessant’anni fa. Che non è una ragione sufficiente, lo so. Perché m’era piaciuto, eccome, e non voglio cancellare quella felice giovanile impressione, che significherebbe cancellare un brandello di giovinezza («come quando uno/ si mette a cantare/ senza sapere le parole./ Una cosa molto volgare./ Ebbene, così mi piace di fare»).
Mi rendo ben conto che queste così esposte e significate, non sono valutazioni critiche. Però non posso incominciare se non indicando quello che per me è un punto fermo, essere cioè il «valore» del Palazzeschi narratore concentrato nei :riflessi del 1908, nel Codice di Perelà del 1911 e nella Piramide del 1926. Cercherò di motivare le mie predilezioni per quel primo Palazzeschi. C’è una questione di gusto soggettivo, d’accordo, ma c’è soprattutto la sensazione, nel lettore, di trovarsi al centro di una rivoluzione che va ben al di là della letteratura ma che dalla letteratura riceve un ottimo codice segnaletico o un attrezzato osservatorio meteorologico. Un vero uragano che si abbatte sull’Europa e Palazzeschi ci passa in mezzo.
Da poeta, naturalmente, e qualcosa gli resta appiccicato addosso. Pascoli, d’Annunzio, Corazzini, Moretti, Papini, Soffici, Marinetti, per restare negli immediati dintorni, gli offrono schegge, pezze che si trasformeranno in un suo originalissimo abito, un patchwork su misura, non per studio o per impegno culturale, ma per una fortunata facoltà di assorbimento e di rielaborazione. Un caso dimostrativo è quello ripreso da Balducci, del suo rapporto con Nietzsche, così come appare dalle opere giovanili (e maggiori), tema in cui la miglior critica si è esercitata e la cui conclusione è lasciata in sospeso interrogativo, o ridotto alla «rivalutazione della corporalità». Troppo vaghi gli indizi, per azzardare che il «leggero» di Perelà, uomo di fumo, lo si può intendere come «anello di transito verso Nietzsche». Nietzsche fa parte di quelle pezze che confezionano l’abito, è un suo Nietzsche «particolare», indisciplinato, insofferente, in un riversamento «comico» (di una comicità (...) tutta interiorizzata senza residui sublimi e fuori moda»).

Né si può dimenticare ch’egli vive tra “Lacerba” e la “Voce” e tra Firenze e Parigi. Si aggiunga infine che ormai da quasi un secolo sta maturando (e all’inizio del XX secolo esplode) un sentimento, il più diffuso allora in Europa, di dichiarata defunzione dell’arte, di discussione e messa in crisi di ogni certezza, nel passaggio, come diceva Anceschi, dalla crisi di una civiltà a una civiltà di crisi. Gli anni del maggior Palazzeschi preludono a un secolo che sta per saltare in aria, con le guerre planetarie, le rivoluzioni e le reazioni reazionarie che tutti conosciamo.
Tutto ciò per dire quanto sia difficile una qualsivoglia aggregazione, ogni attribuzione di appartenenza a scuole per Palazzeschi. Ivi compresa quella futurista che pure l’accompagna (il suo vero manifesto è quello del Controdolore e non il marinettiano del 1909). L’etichetta che più si è diffusa è forse stata la meno impegnativa, di «avanguardista». In cosa consiste il suo avanguardismo? Prendo il suo primo romanzo che sconcerta già nel titolo, nella grafica del titolo, che ha in testa un «due punti», che fan pensare a un prima, “: riflessi”.
Un futurista, allora? Poi leggo e noto una doppia partizione strutturale e stilistica tra l’ampia prima parte, il romanzo vero e proprio in forma di trenta lettere, e la seconda che scardina strutture e stile, reintonandolo a rovescio, affermazione e negazione, dal tragico al comico, per semplificare. Andrebbero benissimo a sé stanti le lettere per originalità inquietante, ma non sarebbe Palazzeschi senza l’ulteriore intervento. Epistolare: vuol dire che è naturaliter scritto e non raccontato, è volutamente letterario, con le sue bizze e i tic, ed è di scrittura visibilmente alta, tra gusto prezioso d’arcaismi (élleno, romore, scuoprire, decembre, core, io pensava...) e curiosi atteggiamenti di grafia, con un tono alto nelle lettere, liricante, come si addice a un eroe «estetistico» e superumano all’Aurispa o all’Effrena. Se non fosse che proprio quelli diventano gli strumenti del ribaltamento, della parodia, con un procedimento analogo a quello tenuto nelle poesie.
Da : riflessi faccio un salto in avanti fino alla Piramide che, scrive Baldacci, «è anche il libro del più radicale nichilismo di Palazzeschi, e insieme della sua più perversa comicità». La domanda, però, è se il nichilismo può coprire con una qualche approssimazione l’intera sua opera. Lo stesso vale per quella che sempre Baldacci definisce una «lingua provvisoria». A questo punto vorrei tornare a un’altra sua qualità determinante, cioè all’insofferenza per lo più controllata da una maschera stilistica paciosa (la fiaba, il gergo aulico...) mescolata alla leggerezza, e che si riflette nella contraddizione.
O non è proprio la contraddizione che gli consente di essere Palazzeschi?
E qui siamo forse al carrefour. È possibile, e come, conciliare i diversi registri palazzeschiani? Molte infatti le contraddizioni vere o apparenti che ne contestualizzano tutta l’opera, fino a capovolgersi nella revisione totale della scrittura, e non solo, già in questo primo tomo esemplificata
con alcune doppie redazioni. È il «ritorno all’ordine», illusorio, che preluderà a nuove catastrofi. Mi pare che sarebbe un errore scegliere una versione unica quanto scegliere l’opposta. Perché le contraddizioni, stilistiche e idelogiche che siano, convivono quasi iperrealisticamente e rappresentativamente, senza alcun azzardo conciliativo. Questa contemporanea pluralità di anime, di forme, è un segno, il suo, di riconoscimento.

l’Unità, 7 aprile 2004

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