3.8.13

Primo 900 in Austria. I rapporti tra letteratura e scienza (Claudia Monti)



Arthur Schnitzler
Una volta Musil scrisse che l’«ingenuo» ordine narrativo, quel filo del racconto su cui è così pacificante allineare beatamente gli eventi e che for­se «in campagna» si può ancora infilare attraverso tutto quel che succede nel tempo e nello spazio, «in città» si è disper­so: perché qui tutto è già diventato non-­narrativo, non segue più un filo, ma si spande in intrichi sterminati e dilaganti. In questo passo di Musil c'è, strabollito e distillato, quasi tutto il successo di un pro­blema che da qualche tempo sembra ap­passionarci.
Alcune avvisaglie in questo senso si erano già notate un anno fa — in un terre­no per la verità non specificatamente let­terario, anzi più vicino alle arti visive — con il dibattito suscitato dal bel numero della Rivista di Estetica su «Arte e Metro­poli». Confluito e dispersosi poi nei meandri serpentini del discorso sul «po­stmoderno», il tema sembra riemergere ora in tutt'altra area e in tutt'altra forma, e approdare ai lidi della letteratura.
Che reazioni ha espresso la letteratura di fronte alla progressiva urbanizzazione e tecnologizzazione del pianeta? E' que­sto, all'incirca, quanto si sono chiesti re­centemente a Palermo i partecipanti al convegno Letteratura e civilizzazione, organizzato da Aldo Gargani e Natale Te­desco: dove si è tentato, per l'appunto, di investigare i modelli, gli atteggiamenti e le modalità stilistiche con i quali la lette­ratura contemporanea ha reagito alle strutture materiali e culturali sempre più complesse della civiltà tecnologica. E un quesito per alcuni versi contiguo verrà posto oggi a Trieste (dove i convegni si di­stinguono ormai per la scelta sensibile dei temi: l'anno scorso a quest'epoca vi si svolgeva quello sul «nichilismo»), al con­vegno sul tema Il ruolo della scienza nel­la letteratura austriaca nel secolo vente­simo, organizzato da Claudio Magris e dal consolato austriaco di Milano. Ci si in­terrogherà cioè sulle reazioni della lette­ratura di fronte alla profonda penetra­zione in ogni ambito delle scienze esatte e specialistiche.

I dubbi di Broch
Già, perché quella semplice e antica «ingenuità del narrare» di cui si diceva al­l'inizio, quella che nel caos complesso e eterogeneo della metropoli è andata di­sperdendosi, tanto più si disperde nel proliferare sterminato dei saperi specia­listici che all'avvento di quella metropoli si accompagnano. Ed è qui, allora, che ci si rivolge ancora una volta all'Austria, a quel curioso e composito paese dove in uno spazio relativamente ristretto una grande letteratura (quella di Kafka, Mu­sil, Broch o Schnitzler) si è trovata a con­vivere gomito a gomito con un grande sviluppo delle scienze naturali ed umane (da Boltzmann a Freud, da Mach alla psi­colinguistica, dal circolo di Vienna a Wit­tgenstein). E dove si assisteva a scambi o travasi non da poco fra scienza e lettera­tura, e poteva anzi capitare che compli­cati modelli fisici e matematici si tradu­cessero in teorie letterarie. O anche ma­gari — perché no — che teorie poetiche e letterarie si traducessero talvolta in modelli matematici!
Certo, i rapporti fra scienza e lettera­tura non sono stati sempre dei più sem­plici. Infatti la letteratura, un tempo si­gnora indiscussa nel morbido terreno della conoscenza degli uomini e dell'ani­ma, si è vista minacciata dal vorticoso sviluppo di quelle scienze umane — psi­cologia o sociologia, linguistica o psicoa­nalisi — che hanno invaso i suoi domini. E ha reagito nei modi più svariati: talvol­ta accentuando all'estremo una propria idilliaca separatezza, talaltra cercando, al contrario, di far propri questi nuovi sa­peri, talaltra ancora dichiarando sfidu­ciata la propria inadeguatezza a conosce­re e dominare un mondo diventato così problematico e complesso.
E' questo il caso, ad esempio, di Her­mann Broch, scienziato e filosofo oltre che scrittore, che visse nel modo più tor­mentoso la tensione tra scienza e lettera­tura. Roso da un dubbio persistente circa le capacità conoscitive della letteratura di fronte alla complicata modernità, ten­tò in un primo momento di dilatare i con­fini della letteratura riassorbendovi i sa­peri scientifici e legittimandola di fronte ad essi come una «conoscenza totale», di contro alla settorialità specialistica di quelli. Ma poi, dopo avere sperimentato romanzi come I Sonnambuli, dove la narrazione qua e là si interrompeva in­farcendosi di interi trattati teorici, perse fiducia nella letteratura e se ne allontanò sempre più, dandosi a studi sulla psicolo­gia delle masse e sulla teoria della scien­za: conoscenze, queste, certamente «par­ziali», ma che gli sembravano più reali.
Si dà però anche il caso opposto. Quel­lo della letteratura che si dilata, sì, verso la scienza, assorbendone metodi e conte­nuti; ma che, conscia della crisi da cui so­no attraversate la stessa scienza e la filo­sofia, ormai dubbiose verso le «verità» assolute e universali dei propri sistemi teorici, esce da questa trasmutazione raf­forzata e sicura del proprio ruolo conoscitivo. Perché, come si chiesero alcuni scrittori, se i filosofi o gli scienziati dicono il «pensiero» universale, e il narratore in­genuo dice l'«uomo», chi mai dirà l'«uomo che pensa», il pensiero cioè nell’incerto e nebbioso processo del suo for­marsi, quando non si è ancora staccato dalla singola effimera esistenza, dall'uo­mo cioè che lo pensa? Così, per risolvere questo quesito, si escogitarono via via forme di letteratura e forme di romanzo «saggistiche», che riassorbissero anche il pensiero scientifico e filosofico, ma che, togliendolo dalla sua supponente pretesa di certezza, lo calassero nella precarietà incerta e mutevole dell'esistenza.
Così nacque, ad esempio, L'uomo senza qualità, romanzo saggistico dove narrazione e riflessione intimamente si incorporano e che costituisce uno dei tentativi più interessanti di rispondere al­le esigenze incrociate tanto del roman­ziere moderno — per il quale l'antica in­genuità del narrare non è più sufficiente di fronte allo sviluppo del pensiero — quanto del pensatore moderno che, tra­montate le certezze assolute e universali dei suoi padri, cerca un pensiero più rela­tivo e contingente, ma che aderisca al particolare caldo ed effimero dell'esi­stenza. Qui allora la letteratura vive la sua grande rivincita, perché essa, nient' affatto inferiore alla scienza, diventa an­zi il luogo dove può finalmente venir det­ta l'ombra rimossa della stessa scienza, cioè quei significati filosofici e scientifici che i linguaggi delle scienze non possono dire, soggiacendo, per la loro intrinseca natura di «saperi forti», alla falsificazione del potere, all'irrigidimento ideo­logico, alla chiusura nella sistematicità.

Arthur Schnitzler contro la psicoanalisi
Analoga è la rivincita che la letteratura si prende sulla sua rivale più temibile an­che se più seducente, la psicoanalisi, quella che osava spingere i suoi affilati strumenti teorici fin dentro il terreno morbido e oscuro del profondo, in cui un tempo spalancavano sprazzi di luce sol­tanto le intuizioni e le metafore dei poeti. La letteratura, talvolta spiazzata da que­sta invasione, o attratta e spinta ad attin­gere anch'essa a quegli strumenti, mani­festa in fondo però la certezza un po' suf­ficiente che soltanto nel suo luogo il pul­lulare sotterraneo possa essere detto sen­za soggiacere al riduttivismo dell'orto­dossia, da cui neppure la psicoanalisi an­dava indenne.
E' questa l'intuizione anche dello scrit­tore austriaco che viene più spesso af­fiancato a Freud, quello Schnitzler che, psichiatra a sua volta, in novelle di sottile scavo psicologico già nel 1900 smontavai meccanismi profondi che presiedono al­la formazione dei gesti o del linguaggio, degli atti mancati o dei lapsus (Il sottote­nente Gusti, La signorina Elsa). Ma mentre Freud dichiarava verso di lui una sorta di riverente «timore del sosia», Schnitzler avanzava invece critiche au­daci alla psicoanalisi per la sua ortodos­sia o per l'eccessiva codificazione della sua simbologia onirica, e si spingeva ad attaccarne capisaldi come la definizione topografica di inconscio o il complesso di Edipo.
Certo, il rapporto letteratura-psicoanalisi è anche di quelli che più evidenzia­no scambi e travasi assai stretti e segreti fra scienza e letteratura. Da una parte, in­fatti, Freud scriveva storie che qualcuno ha proposto di leggere come romanzi (Dora, L'uomo dei lupi); dall'altra i ro­manzi si arricchivano e addensavano di affilati scavi analitici. Il raccontare in analisi e il raccontare letterario appariva­no sempre più spesso ramificazioni dissi­mili di esigenze in verità assai simili. E se l'analisi veniva dichiarata da Freud «in­terminabile», anche i romanzi venivano lasciati sempre più spesso «opera aper­ta», incompiuti e sterminati.


“la Repubblica”, 1981



Nessun commento:

Posta un commento