19.8.13

Processi. Milano 1607. La monaca di Monza (Rossana Rossanda)

Nell’agosto del 1988 “il manifesto” dedicò la pagina di letture per le vacanze alla rievocazione di grandi casi giudiziari del passato sotto il titolo Processo ai processi. Non so se la cosa fosse studiata, ma proprio in quell’agosto altre pagine del giornale erano riempite da articoli e interventi su una vicenda di cronaca nera che lasciava prevedere lunghi e controversi dibattimenti processuali (cosa che puntualmente avvenne): la confessione del pentito Marino e il conseguente arresto di Adriano Sofri per l’uccisione del commissario Calabresi. Esattamente 25 anni fa, il 19 agosto 1988, tema della rievocazione fu il processo per la monaca di Monza e ne fu autrice Rossana Rossanda. Riprendo quella pagina e ne consiglio la lettura. (S.L.L.) 
Il contenuto scabroso (amori e quattro assassini in un convento di clausura) e la segretezza degli atti (tribunale ecclesiastico di Milano) hanno fatto sì che del processo della monaca di Monza si sia golosamente parlato e scritto dal 1607, quando avvenne, ai giorni nostri. Nessun altro processo, a mia conoscenza, ha ugualmente tolto il sonno a storici, giuristi, avvocati e psicologi e ha avuto la clamorosa sorte di rivivere nel Manzoni, fervorosamente imitato in romanzi, romanzacci, teatro e film.
Quasi ad acuire questa non sempre scientifica curiosità, in passato la Curia di Milano a qualcuno e per breve tempo rese accessibile il manoscritto: qualcosa ne seppe il Ripamonti, che pochi anni dopo le condanne insegnava a Monza e partecipò a quella che doveva essere ancora la conversazione prediletta in città; per alcune settimane ebbe gli atti tra le mani il Dandolo, per breve tempo il Manzoni, che lo rielaborò a lungo nella coscienza turbata; qualche decennio fa infine il Mazzucchelli lo trascrisse tutto anche se non proprio fedelmente, ottenendo uno straordinario successo di vendite. E da due o tre anni, con il permesso, penso, di Carlo Maria Martini, gli Atti sono stati pubblicati dal Centro di studi manzoniani, nell'unica edizione filologica, in italiano e latino, con i documenti annessi ai dieci fascicoli nei quali furono raccolti e una serie di studi, di ispirazione cattolica e di spesso notevole spessore.

LA SCENA
Il processo e la leggenda
Che dicono gli Atti che già non sapessimo? Qual'è la differenza fra il processo, la storia come andò e la trisecolare quasi leggenda? Sapevamo che alla fine del 1500 la giovane figlia di Martino de Leyva, dignitario della dominazione spagnola sul ducato di Milano, Marianna de Leyva, nacque in Palazzo Marino, appena edificato e dove il suo fantasma forse ascolta stupefatto il Consiglio Comunale, ivi collocato. Perduta la madre e l'avarissimo padre essendo dedito alle arti della guerra la piccola finisce a undici anni in convento e a tredici prende il velo.
Sulla sua mancata vocazione gli Atti nulla dicono, né altri documenti, ella viveva ancora quando il Ripamonti la evocò, dando anche notizia di una sua improbabile furiosa resistenza all'arresto col ricordare che era stata monacata per forza. Questo si può solo supporre, e Manzoni ce ne ha persuaso per sempre, scrivendo di quella violenza esercitata sull'animo dell'adolescente con un'aderenza tormentosa, per cui Gertrude si sovrappone sempre, in noi, a Maria Virginia con l'impatto del personaggio lungamente costruito, amato e detestato, rispetto alla povertà delle parole coatte di un processo.
Ma negli Atti non si parla né di vocazioni mancate né di vocazioni accese, non si parla di religione affatto come nessuno degli inquirenti interroga da religioso. I giudici, sobri e probabilmente preoccupati, non rampognano e non esortano, le formule del diritto canonico e il rimando alla pietà del signore sono stereotipi, conta la ricerca dei fatti e contano le procedure. Quel che si disegna nei costituti, le deposizioni, è un luogo di donne sottoposto a una regola e minacciato dalla devianza, che, in tempi e persone poco inclini alle avventure ereticali dello spirito, è la devianza dei sensi, la sottrazione a questo solo aspetto della clausura.
Per il resto, dal Ripamonti al Mazzucchelli — tre secoli di rimbrotti — c'è poco da prendersela con le abitudini di Virginia Maria: la sua giornata passa come quella di tutte tra mille faccenduole che con Dio nulla hanno a che vedere — far fiori di seta, squisiti dolci, collaretti di pizzo per i nobili amici, mormorare di magie, far girare segretamente oggetti magici, fare mattutino se ci si sente di alzarsi e i vespri, idem. Si preparano manicaretti che si consumano o assieme, in basso, o in camera, ci si confessa quando si vuole, si stringono amicizie fra donne e inimicizie fra donne, nonché con chi viene in visita alla grata e tutta una rete di serventi, giardinieri, fattori, speziali, domestiche, cupidi e impauriti non dalla divina maestà ma dal terrestre potere dei conventi.

IL FATTO
La sventurata non rispose
Sappiamo dagli archivi storici che Marianna de Leyva, in religione suor Maria Virginia, fin da ragazzina undicenne esercita i diritti feudali che le vengono dall'essere unica figlia di Martino, e assieme i suoi doveri prima e dopo aver preso a tredici anni il velo, con regolarità e quiete. Del suo carattere inquieto e rissoso nulla o quasi risulta dagli Atti, perché i costituti delle terrificate priora e vicaria devono scaricare su una sua arroganza il loro lassismo, mentre meno implicate sorelle diranno che tutti le volevano bene.
Vero, falso? Quel che è certo, da una lettera mandata a un prete mezzano che la minaccia, è che suor Maria Virginia non dimentica di essere Marianna de Leyva e con gli inferiori parla non da monaca ma da signora offesa. Persino in tribunale dirà con naturalezza «una par mio». E in convento era servita e si voleva piacerle come, appunto, alla Signora, secondo il costume del tempo, per nulla temperato da ardori mistici o trasporti di pietà.
Dai tredici ai ventitre anni Suor Maria Virginia è come le altre. Poi, un giorno, mentre è in giardino con le educande vede che nel palazzo attiguo un giovane fa segno a una di loro, e la sgrida aspramente. Il giovane fa allora segno a lei che se ne offende. Gli Atti sono concordi: la sventurata non rispose, la bellissima ellisse con la quale Manzoni censura se stesso e Fermo e Lucia. Fra lei e Giampaolo Osio stanno due consorelle, suor Ottavia e suor Benedetta, e un prete, Paolo Arrigone, che (non è lei ad accusare le due donne) la portano quasi per mano all'Osio, appena si avvedono che lei, con grande dolcezza, dice a una di loro scorgendolo dall'alto: «Ditemi, si potria mai veder più bella cosa?». Il prete negherà tutto, le due suore no, ma non saranno interrogate su di sé. Interessa al giudice poter provatamente incriminare suor Maria Virginia, chi l'ha aiutata sarà ipso facto punito come lei. Il processo per primo compie quella centralizzazione della figura di lei, che nel Manzoni è l'unica, nella debolezza, nella colpa, nella pietà.
Negli Atti perfino l'amante e complice, materiale esecutore degli assassini, non si vede, perché è un laico e sarà il Senato di Milano a occuparsene. Allegata c'è solo una sua lettera all'arcivescovo di Milano, due giorni prima del primo interrogatorio di Virginia, quando si delinea la loro rovina, nella quale «lo scellerato» appare, a nove anni dall'incontro con «la povera signora Maria Virginia» disperatamente innamorato di lei e impegnato follemente a difenderla, addossando le responsabilità delle di lei cadute a «quelle due bestie» di suor Benedetta e suor Ottavia, donne più di lei consapevoli delle «cose del mondo», maliziose e mezzane. Che l'Osio ha cercato, diciamo così, mollemente di liquidare, ammazzandole a metà quando esigono di fuggire con lui, e facendone quindi i più spietati testimoni d'accusa.
Di lui non sappiamo direttamente altro, al processo laico non essendosi presentato, suppongo per sfuggire la prevedibile condanna: attanagliamento con ferri roventi, amputazione della mano destra, impiccagione e squartamento dei resti da esporre in vari crocicchi della città, casa demolita. Sarà ricercato ancora nel 1609, quando Virginia è già murata viva alle Convertite, e un giorno riparerà segretamente presso l'amico più fidato, il conte Ludovico Taverna. Il quale lo accoglie e lo fa decapitare in cantina dai suoi sgherri, e il capo mozzo sarà gettato per strada ai piedi del governatore di Milano, Fuentes. Fosco destino davvero, che finora non ha trovato una penna pietosa. Dei moti dell'animo dello «scellerato» Egidio il Manzoni non s'impiccia, e le fonti storiche tanto meno.
Né sappiamo se e quando suor Virginia Maria apprende la morte d'un uomo col quale ha diviso nove anni di vita e, di fatto, il destino. Un rapporto coniugale, che la storia ha trasformato nel cedimento a una tentazione: lungo cedimento, nove anni. E due figli, il primo partorito morto, in cella, soffocando gli urli; corpicino affidato all'Osio affinché lo ponesse in luogo «dove non lo mangiassero i cani», sole e disperate parole di suor Virginia Maria, e più tardi una bimbetta viva, che l'Osio solennemente legittimerà. E la porterà alla Signora l'indomani del parto, lavata, togliendole le fasce perché la madre la veda tutta («Non sfasciatela, che non me l'aveste a storpiare»). Poi altre volte Virginia la vedrà, le farà gli indumenti, la prenderà in braccio con discrezione ma sussurrando: «Siete la mia donnina, non siete la mia donnina», «attristandosi perchè era brutta», testimonia una giovane.

L'IMPUTATA
Presente e travolta
Ma che può dire suor Maria Virginia di sé, di lui, di questo strano matrimonio nel quale è stata amata tanto? Per anni l'Osio è salito e sceso dai muri, scivolato per camini, s'è arrampicato per tetti, introdotto con un velo da monaca e chiavi contraffatte che sovente lei butta nel pozzo, amante ma terrificata. Per difendere lei l'Osio ha ucciso, se è stato lui, una conversa che indispettita voleva parlare, ma nessuno dice che è stata Virginia a volerlo, fra i testimoni e complici. Lei come sempre è presente e travolta, prima di tutto da se stessa. Quando sarà interrogata dall'inquirente, a Milano, parlerà d'un malefizio, una calamita stregata che lui le dette da baciare e sfiorare con la lingua, come lui aveva fatto — il primo bacio fra i due per interposto oggetto — perchè altrimenti non sa spiegare la passione che l'ha dominata e contro la quale non sono valse novene, preghiere, argenti mandati a Loreto, separazioni.
Di questa battaglia per toglierselo dal cuore e dai sensi gli Atti testimoniano: la Signora si serra in camera per mesi, malata, infelicissima, sanguinante di parti o determinata a finire. Marianna de Leyva, quando parla con la sua voce — due volte in tutto — somiglia più alla Gertrude bambina, come Manzoni l'ha dipinta, che alla Gertrude adulta, forte nel «vizio», provocatoria nell'abito — il ricciolo che le sfugge dal soggolo, prova della capigliatura non recisa, il biancore del collo che traluce dalla «honesta» non ben serrata, la forma del seno disegnata dall'abito troppo stretto. Ma questa figura seduttiva è l'erotismo del Manzoni a crearla, il suo occhio avido e colpevole. Si censurerà. Ma anche quando in Gertrude vede lo scontro fra società e volontà individuale, passione e ragione, comprendendo ma non potendo assolverla e assolversi, Marianna de Leyva è sfocata.
Qualcosa sempre la trascina ma è docile, come nell'interrogatorio e nella pena e nel ritorno al mondo. Non ha fulgori né di intelligenza né di passione. O forse non ha avuto parole per essi, e come le avrebbe? Nel processo certo no. Le donne non vi hanno mai parola propria perché non hanno mai fatto la legge. Né in quell'inchiesta spinte e affetti hanno altra veste che quella del peccato, vizio o colpa. Se parlasse, chi la ascolterebbe? Neanche con se stessa forse parlava. Meno ancora avrebbero parola le motivazione, sensuali e/o affettive delle due, tre complici, che vivevano accanto ai due — che si amarono sempre, fino all'ultima notte, quando l'Osio ricercato ha ormai commesso il penultimo errore, s'è rifugiato in convento.

L'INCHIESTA
Pentite senza premio
Gli Atti del processo, se appena riordinati nella cronologia, mostrano che l'inquirente è preso di sorpresa, da una faccenda le cui dimensioni col processo precipitano. Non c'è compiacimento persecutorio. Da quando in convento, non potendo reggere un'infinita convivenza con l'Osio, denunciano quel che sapevano — e tramite i famigli sapeva certo tutta Monza, e a leggere la sfilza della nobiltà milanesi, i conti palatini che sottoscrivono la legalizzazione della figlia di Marianna e Giampaolo (sia pur sotto nome fittizio della madre ), sapeva anche tutta Milano — e cioè la tresca, le cose rapidamente cambiano. Il cardinale Federigo Borromeo sarà stato contento di prendersi una vendetta sulla intollerabile nobiltà spagnola, ora potere secolare, ma quando finalmente manda a «levare» Virginia da Monza, l'ultima domenica di novembre, pensa semplicemente a una grave violazione della disciplina claustrale.
Senonché è appena aperta l'inchiesta che suor Benedetta e suor Ottavia, terrorizzate, vogliono fuggire e chiamano l'Osio. Il quale, più temendo per “la povera signora Virginia Maria» che per sé, non si nega. Segue una notte di cammino senza meta, dove forse si azzuffano si ricattano, e a un certo punto suor Ottavia cade o è gettata nel Lambro, non riesce o non la fanno risalire, forse è colpita dalla canna del fucile dell'Osto, finisce fradicia e ferita contro una chiusa, dove la troveranno i contadini. Altri cittadini porteranno al magistrato suor Benedetta, che gridava dal fondo di un pozzone.
L ' Osio non ha osato né portarle in salvo fuori del ducato né finirle. Sono imputate come Virginia ma anche testi d'accusa, le «pentite» dei giorni nostri, senza premio. Il magistrato fa certo più riscontri che non ne cerchino certi magistrati ora, e così si trova tra le mani una storia che precipita al peggio, quando dallo stesso pozzone esce una testa semiputrefatta, e prima che i medici possano riconoscerla, suor Ottavia parla. E' la più malandata, morrà di ferite e forse delle sorprendenti terapie che le applicano, dopo essere stata interrogata nove volte. Come nessun'altra. Parla e denuncia via via che, nell'assai permeabile isolamento della cella del convento, le giunge notizia dei reperti che arrivano sul tavolo del magistrato, che di colpo si trova davanti un omicidio e due tentati omicidi.
Da quel momento il giudice fa quel che onestamente può per circoscrive l'indagine. Si guarda bene dall'incriminare priora e vicaria e tutti coloro che hanno tenuto mano alla relazione di suor Virginia Maria. Gli Atti rivelano l'attenzione a non compromettere tutto il convento in una città di conventi, ben settantasei per cinquemila abitanti, e probabilmente dai costumi non troppo diversi.

LA SENTENZA
Una porta fatta muro
Come persegue con particolare tenacia il prete mezzano, non solo perchè questi nega con determinazione, ma perché appare figura più importante d'una monaca, per nobile che sia, e si vorrebbe scagionarlo. E' condannato a una ben mite pena, anche tenendo conto che non ha posto mano nell'assassinio della conversa: tre anni di remi alla galera e l'allontanamento da Monza — se no perderà gli ordini.
Sulle monache la mano è assai più pesante: saranno murate vive, prima suor Virginia Maria de Leyva, poi suor Benedetta Homati, suor Candida Colomba Trotti Brancolini, suor Silvia Casati, in cubicoli di cinque braccia per tre, con un pertugio per ricevere cibi e luce. Porta fatta muro in pietre e calcestruzzo, resteranno a vita, pregando, senza sentirsi rivolgere parola, al calore e al gelo, nei loro escrementi e nel loro sangue.
Virginia Maria ne uscirà tredici anni dopo. Ne ha 45, è sfinita, non sa stare in piedi, non regge la luce, è avvezza al puzzo e lo cerca. Le diranno che il cardinal Federico ha una pia inclinazione per le donne che dall'abisso dei sensi sono risalite alla virtù, inclinazione che oggi vediamo con occhi meno compunti d'un tempo. Dopo un primo incontro nel quale il vescovo la umilia duramente, il rapporto con la convertita sarà cosi intenso che Federico Borromeo mediterà di scriverne la vita, a edificazione dei credenti. In questo ruolo, come sempre docilmente, suor Virginia Maria si riabitua a vivere e a scrivere, lettere nelle quali una sola volta traspare un sentimento: la sorpresa di non essere morta in quei tredici anni. Si spegnerà trent'anni dopo, nel 1650. Al giudice che la interrogava nel dicembre 1607 aveva detto: «Io havrò 32 anni» e prima che finissero, era già murata.

Gli Atti del processo sono pubblicati in Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva, signora di Monza,Garzanti 1985.1 saggi che li accompagnano, fra i quali molto bello quello di Anna Maria Tonucci, portano una bibliografa esaustiva, cui si rimanda. Va forse aggiunto un libretto che Adriano Sofri, oggi detenuto per via d'un pentito, scrisse sui rapporti tra Federico Borromeo e Caterina Vannini: R. Barzanti, A. Sofri, Dialoghi di una convertita, vita e lettere della venerabile Caterina Vannini senese, Siena 1986.

"il manifesto", 19 agosto 1988

1 commento:

  1. Grazie per aver pubblicato questa bella testimonianza della Rossanda! Il suo è tra i pochi post accurati sul processo in questione. Un saluto e riprenda il blog!

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