16.8.13

Russia. La nascita della democrazia "sovietica" (Luciano Canfora)

Luciano Canfora
Questo scritto, a mio avviso bellissimo, di Luciano Canfora sulle origini dei soviet risale ai primi mesi del 1990. E, forse, vale la pena rammentare il contesto di quel momento.
Alla fine del 1989 c’era stata la cosiddetta “caduta del muro” e l’esistenza dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche veniva messa fortemente in discussione dalla pressione indipendentistica di alcune nazionalità, autorizzata da quel “diritto alla secessione” che Lenin aveva propugnato e Stalin aveva fatto inserire nella Costituzione del 1935.
Gorbaciov, primo segretario del Pcus e primo ministro dell’Urss in fase di smobilitazione, stava lavorando a una soluzione “confederale” attraverso una rinegoziazione del patto tra le nazionalità sovietiche. Era già pronto il nome della nuova struttura statuale: abbandonato il riferimento al socialismo e ai soviet, si sarebbe chiamata CSI (Confederazione di Stati Indipendenti).
La scommessa di Gorbaciov era la “democrazia”, identificata nel meccanismo di delega elettorale caratteristico degli Stati Uniti, cioè con una forte connotazione presidenzialista. In questo contesto era stato eletto presidente della Repubblica Russa, fuori dalle indicazioni del Pcus, ancora partito unico, l’ex leader del Partito di Mosca, Boris Eltsin, alcuni anni prima allontanato dal potere con il consenso di Gorbaciov, già suo “sponsor”, per le posizioni di “sinistra”. L’uomo aveva costruito intorno a sé una sorta di comitato d’affari e si era  riciclato su posizioni nettamente filoamericane, anche sul piano economico-sociale. Cominciavano proprio allora, con la sua regìa, gli esperimenti di “privatizzazione”, appropriazioni neanche coperte dalla legislazione, preannuncio del saccheggio imminente dei beni collettivi.
Tutto ciò, nei primi mesi del 1990, era ancora allo stato embrionale. Vigeva in Russia la confusione istituzionale e di potere: si contendevano gli spazi decisionali il Pcus, le autorità governative dell’Unione, l’Armata rossa con alleato il Komsomol (la Gioventù comunista), gli “eltsiniani” della Federazione Russa, i Municipi di Mosca e di Leningrado (si chiamava ancora così). In questa sorta di pluralismo anarcoide ci fu perfino qualche tentativo di rivitalizzazione dei “soviet”, gli organismi rappresentativi dei lavoratori che erano stati protagonisti della Rivoluzione del 1917 e conservavano alcuni poteri più formali che sostanziali.
L’antichista Canfora passava e continua a passare per “stalinista”. E non si vergogna dell’epiteto. Ma nell’articolo rievoca senza complessi le stagioni dei soviet e in esse il ruolo fondamentale di Trotzkij. Aveva già scritto che non solo riteneva necessaria l’evoluzione centralista del primo stato operaio  (così fa anche nell’articolo qui postato) e  che Stalin (spesso paragonato a Ottaviano Augusto) l’aveva condotta con coraggio, vigore, genio costruttivo, al punto che quel primo grande stato sociale autoritario a egemonia operaia, sotto la sua guida, non solo aveva resistito alla aggressione nazista, ma era divenuto una potenza mondiale, un modello di sviluppo economico e civile. La sua onestà di storico e di comunista, tuttavia, non può fargli accogliere come veritiera la propaganda fontro la figura di Trotzkij, “traditore da sempre”. 
Canfora – alla luce di Gramsci - vede perfettamente alcune ombre nella gloria di Stalin, ma, nel suo “machiavellismo”, accetta una sostanziale riduzione di libertà e di verità, se la perdita è provvisoria e finalizzata. Come l'Isaac Deutscher, che qui cita, egli credette fino alla fine nella riformabilità del “sistema” costruito da Stalin. Non a caso, nell'articolo qui postato, Canfora esprime la speranza, presto rivelatasi infondata, di un ritorno al “soviettismo”. 
Il carattere illusorio di questa speranza non toglie vigore alla rigorosa e appassionata rievocazione e non toglie valore pararadigmatico all’esempio sovietico, in tutte le sue fasi. La costruzione di una prospettiva nuova di rivoluzione egualitaria, dovrà estrarre tutte le possibili lezioni, positive e negative, dall’esperienza storica del comunismo leninista. (S.L.L.)
«La sera del 26 ottobre (1905) - narra il giornalista e storico americano William Henry Chamberlin nella sua History of the Russian Revolution 1917/1921 - trenta o quaranta delegati (alcuni operai di Pietroburgo, altri rappresentanti di partiti rivoluzionari) si riunirono nella sala dell'Istituto tecnologico di Pietroburgo. Questa merita di essere ricordata come una data storica, poiché fu la prima riunione del soviet (che in russo significa semplicemente consiglio), il quale non solo ebbe la parte più importante nel successivo svolgimento del moto del 1905, ma offrì la forma politica che prevalse dopo la rivoluzione bolscevica del 1917».
Per la precisione si dovrebbe dire che il primo soviet di cui si abbia notizia si era formato nella città di Ivanovo-Voznesensk nel maggio del 1905, sorto come «comitato di sciopero», poi alla testa del movimento rivoluzionario: ma - osserva Chamberlin - quella prima embrionale struttura «non possedeva il prestigio di portata nazionale ed il significato dell'organizzazione di Pietroburgo».
L'iniziativa del soviet di Pietroburgo venne dal gruppo menscevico. Inizialmente Lenin guardò con diffidenza alla nuova struttura, che veniva affermandosi e acquisiva prestigio: «Non è - disse - né un parlamento di operai, né una organizzazione di amministrazione operaia, bensì un'organizzazione di lotta volta al conseguimento di fini delimitati». Solo più tardi, nel marzo del 1906, comprese che si trattava di un'organizzazione concreta e immediata del potere operaio, «malgrado - soggiunse - tutti gli elementi embrionali, disorganizzati e dispersi coi quali i soviet si costituirono e funzionarono» (La vittoria dei «cadetti» e i problemi del partito operaio).
Dopo una breve presidenza dell'avvocato ebreo Khrustalev-Nozar (presto arrestato), la guida del soviet di Pietroburgo nei mesi della rivoluzione del 1905 passò nelle mani di un altro rivoluzionario di origine ebraica, Lev Davidovic Trockij, allora su posizioni ben lontane da quelle dei bolscevichi. Il meccanismo di rappresentanza era in ragione di un delegato ogni 500 lavoratori. Gli equilibri politici all'interno di questa struttura spontanea - il cui prestigio si estendeva all'intero paese - erano assai complessi; bolscevichi, menschevichi, social-rivoluzionari, operai senza partito: questi ultimi erano numericamente prevalenti: dei trecentomila operai di Pietroburgo solo poche migliaia militavano nelle formazioni politiche organizzate.
Il riapparire dei soviet come struttura rivoluzionaria di base nel febbraio '17, al profilarsi della nuova esplosione rivoluzionaria, sta ad indicare il radicamento di tale auto-organizzazione democratica nella storia della lunga rivoluzione russa.
Nel 1905, i soviet avevano - in certi casi - addirittura esercitato il potere: il soviet di Novorossijsk (sul mar Nero) depose il governatore locale e istituì tribunali. A Krasnojarsk, in Siberia, il soviet incluse rappresentanti dei soldati (un carattere che divenne stabile nel '17: una delle cause della rivoluzione fu appunto la guerra). La Siberia era la via per le truppe che rientravano dalla Manciuria, sconfitte dai giapponesi. Gli insorti - nota Chamberlin - controllavano a tal punto le comunicazioni che il governo comunicava coi suoi generali via Londra e Pechino».
Nel febbraio '17 il radicamento dei soviet, in concomitanza con il crollo dell'autocrazia, fu assai più profondo; tanto da esautorare lo stesso governo provvisorio. Scriveva il 22 marzo '17 il ministro della guerra di Kerenskij: «Il governo provvisorio non possiede un potere reale, i suoi ordini sono eseguiti solo per quel tanto che è permesso dal soviet degli operai e dei soldati, che ha in mano gli elementi più importanti del vero potere, cioè i soldati, le ferrovie, il servizio postale e telegrafico. Si può dire in forma più netta che il governo provvisorio esiste solo in quanto il soviet glielo permette. Specialmente in materia militare gli ordini che si possono dare non devono essere fondamentalmente in conflitto con le deliberazioni del suddetto soviet».
Certo il soviet di Pietrogrado era l'asse portante del potere rivoluzionario, ma non vanno trascurati i soviet provinciali. Si superava così il limite giacobino, e poi della Comune parigina del 1871: una testa rivoluzionaria che camminava troppo spedita rispetto al resto del paese. Questa è la principale novità rappresentata dall'esperienza sovietica nella storia della democrazia moderna. Il primo concreto modo di dar vita ad una democrazia diretta non già limitatamente ad una singola, per quanto influente metropoli, ma ad un paese dall'estensione immensa. Che è poi il maggior proble¬ma della democrazia moderna, se non vuol snaturarsi - come già ammoniva Rousseau con allarme - in un meccanismo di delega che finisce col negare la premessa stessa della democrazia. (Che infatti nelle antiche comunità di epoca arcaica era sempre democrazia diretta).
Così si spiega, nei mesi tra il febbraio e l'ottobre, la spinta controrivoluzionaria (Kornilov) mirante a mettere fuori legge queste ingombranti e influenti strutture di base e la parola d'ordine di Lenin (un tempo diffidente): «Tutto il potere ai soviet». Si può dire che la diarchia tra soviet e governo provvisorio era alla lunga insostenibile, e che dunque la scelta obbligata era, alla fine o Kornilov o Lenin. La vittoria di Lenin passò attraverso la conquista della «maggioranza» da parte di bolscevichi nel soviet di Pietroburgo. E qui il ruolo di Trockij - ritornato alla testa dei soviet della capitale come già nel 1905 - fu grandissimo. 
Nell'autobiografia del grande dirigente bolscevico, così ricca di pagine letterariamente rilevanti, ve n'è una che descrive in modo vivo l'eccitazione di quei mesi e l'instancabile oratoria con cui Trockij conquistò giorno dopo giorno la maggioranza ai bolscevichi. Descrive i suoi quotidiani comizi nell'edificio del Circo moderno: «Le gallerie minacciavano di crollare sotto il peso. Per giungere alla tribuna ero costretto a passare per un corridoio stretto tra la folla... Nell'atmosfera tesa per l'aspettativa scoppiavano grida, urli appassionati. Attorno a me, sopra di me, gomiti premuti gli uni contro gli altri, petti, teste. Parlavo come da un'ardente caverna di corpi umani. Quando facevo un gesto un po’ più ampio, colpivo sempre qualcuno, che mi faceva gentilmente capire di non preoccuparmi, di continuare, di non interrompermi. Nella tensione elettrica della folla appassionata non ci poteva essere stanchezza. La folla voleva sapere, capire, trovare la propria strada. In certo momenti si aveva la sensazione di sentire con le labbra l'avidità di sapere di questa moltitudine fusa in un essere solo. Allora gli argomenti elaborati prima, le parole già preparate, venivano meno, scomparivano sotto la pressione imperiosa della sensibilità comune, e dall'oscurità uscivano altre parole, altri argomenti, belli e pronti, imprevisti per l'oratore, ma necessari per la massa. E l'oratore stesso aveva l'impressione di ascoltare se stesso, di non poter stare al passo coi suoi pensieri, e la sua sola preoccupazione era di non cadere come un sonnambulo dal tetto, ridestato dal suono delle sue parole» (...) «Rientravo esausto dopo la mezzanotte, nel dormiveglia trovavo argomenti più solidi da contrapporre agli avversari politici, e alle 7 del mattino, a volte ancora prima, venivo strappato dal sonno da odiosi, insopportabili colpi alla mia porta. Mi cercavano per un comizio».
Le cause del declino di questa fase ardente della rivoluzione sono ben note: il fallimento della rivoluzione in Europa, l'isolamento e la necessaria scelta dell'auto-contenimento, la guerra civile, il sacrificio dei migliori, lo scoraggiamento diffuso innanzi tutto nella classe operaia. «Non fu Stalin -scrisse acutamente Deutscher - a distruggere la democrazia proletaria della prima fase della rivoluzione. Essa languiva già prima del 1923-24; Stalin, al massimo le diede il colpo di grazia» (La Russia dopo Stalin, Mondadori, 1954, p.42). Stalin, quest'uomo «staccatosi come un'ombra da un muro del Cremlino - scrisse una volta Trockij - per succedere a Lenin». Eppure è sensato riconoscere con Deutscher che «il corso generale dell'epoca trovò in Stalin il suo organo. Se non fosse stato Stalin, sarebbe stato un altro».
Eppure i soviet sopravvissero anche all'epoca ferrea, alla distruzione progressiva di tutti gli altri partiti, alla guerra civile, alla lunga dittatura di Stalin. Restarono e sono tuttora una potenzialità. Pur impegnatosi a serbare in vita i partiti che non combattessero con le armi contro la rivoluzione. Lenin ruppe questo impegno nel fuoco della lotta per la sopravvivenza della rivoluzione. «Distrusse - ha scritto Deutscher - la democrazia sovietica e mise al bando i partiti, mantenendo però la democrazia nelle file bolsceviche. Ma non poteva concedere ai bolscevichi la libertà che aveva negato agli altri». «Per decenni - egli conclude - la libertà fu bandita dalla Russia perché era, o si supponeva che fosse, la nemica del socialismo. Se fosse stata libera di scegliere la propria via, la Russia non avrebbe certo marciato nella direzione in cui il bolscevismo l'ha condotta. Ma la libertà può tornare a essere l'alleata e l'amica del socialismo: allora i quarant'anni di vagabondaggio nel deserto potranno aver fine».

“il manifesto”, 4 marzo 1990

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