9.9.13

Cina. I giovani scelgono il Partito comunista (di Simone Pieranni)

Come diventare un buon comunista è il titolo italiano di un libretto di Liu Shao-Chi, presidente della Repubblica Cinese negli anni Cinquanta e Sessanta, destituito e mandato a farsi rieducare in campagna durante la Rivoluzione Culturale (1966-1969), di cui fu uno dei principali bersagli. Il libretto, che era in uso come manuale nelle scuole cinesi di Partito ed era stato diffuso anche in Italia dai gruppetti filocinesi prima che esplodesse lo scontro al vertice del PCC, fu sottoposto a critica serrata dalle Guardie Rosse, che vi vedevano il concentrato del "moderno revisionismo" e la base pedagogica di costruzione di una "nuova borghesia", quei dirigenti del partito che si comportavano come padroni e gravavano sulla schiena del "popolo" piuttosto che porsi al suo servizio. Due aspetti se ne criticavano in particolare: il suggerimento di una "obbedienza" quasi servile dell'inferiore al superiore nella gerarchia di partito e quello di "far coincidere i propri interessi personali con quelli del partito", interpretato come un peana all'opportunismo carrieristico. Al libretto di Liu (il cui titolo originale era qualcosa come "l'autoeducazione del comunista") le Guardie Rosse cinesi contrapponevano gli slogan più libertari di Mao Tsetung come "Osare pensare, osare parlare, osare agire" o "Ribellarsi è giusto".
L'articolo che segue, un breve reportage dal "manifesto", racconta della grande quantità di giovani che aspirano a diventare membri del partito e di come si diventa comunisti in Cina. I criteri della selezione iniziale e, probabilmente, anche quelli della carriera di funzionari e dirigenti, oltre alle conoscenze teoriche e storiche, sembrano essere quelli che le Guardie Rosse e Mao contestavano: la disciplina cieca e il conformismo. Del resto i valori dell'attuale "società armonica" e dell'apparato dirigente dello stato e del partito cinesi, hanno radici assai profonde che risalgono ben oltre Liu Shao-Chi e rimontano alla tradizione della casta mandarinale, agli esami per la sua selezione, alla filosofia confuciana. Mao era l'anticonfucio ed è stato duramente sconfitto. Gli onori formali che in Cina il Pcc continua a rivolgergli, sottolineando che ha fatto più cose buone che cattive (il 60%), sono probabilmente un rito per tenerne buono il fantasma e impedire che torni ad aggirarsi tra gli sfruttati della città e della campagna e tra i giovani ribelli. (S.L.L.)

Tre milioni di nuovi tesserati in un anno. Il percorso per diventare del Pcc è duro, ma poi si trova un lavoro

Il fascino indiscreto di un Partito che ha saputo attuare una rivoluzione ed è ancora al potere, o l’ideologia comunista con caratteristiche cinesi, o ancora il «sogno cinese» del presidente Xi Jinping, o forse - e più probabilmente - solo una scorciatoia per trovare lavoro e una sacca di potere da gestire nel proprio futuro.
Le risposte rimangono valide, anche se c’è chi propende per l’ultima, ma il punto di partenza è certo e univoco: secondo una ricerca del ministero della Pubblica Istruzione, gli studenti cinesi si iscrivono in massa al Partito Comunista (Zhonguuo Gongchandang). Solo l’anno scorso se ne sono iscritti tre milioni, nel prossimo anno è previsto che otto su dieci sceglieranno di avviare il percorso per far parte del Partito Comunista più grande del mondo.
La notizia, che secondo alcuni media di Hong Kong deprimerebbe chi spera nel crollo del Partito in Cina, in realtà non fa che confermare un dato, ovvero la straordinaria capacità del Partito Comunista cinese di farsi immagine e carico delle aspettative di gran parte dei cittadini, con ogni strumento a sua disposizione. Durante gli anni rivoluzionari il Partito era visto come sbocco finale di una ideologia che aveva saputo mettere in atto una rivoluzione, sconfiggere di fatto i giapponesi e proporre un paese socialista nel mondo che andava verso la Guerra Fredda. Dopo la morte di Mao, con Deng Xiaoping e Jiang Zemin, il Partito aveva saputo attrarre i «nuovi capitalisti» cinesi e mantenere saldo il controllo nelle zone rurali, anche grazie al mutamento teorico fornito dalle «tre rappresentanze». In epoca contemporanea la praticità dei cinesi si ritrova di nuovo raffigurata dalla constatazione che per farsi strada, avere un lavoro e una fetta di potere da esercitare nella seconda potenza economica mondiale bisogna iscriversi al Partito; una nuova simbiosi di successo raffigurata da un elemento antico, che assume nuove certezze: la «ciotola di riso» che negli anni precedenti le Riforme era garantita dal socialismo, oggi diventa la «ciotola di riso di ferro», garantita dal Pcc. Meno rurale, di sicuro meno comunista, ma più redditizia e soprattutto più «giovane».
Intanto, come si diventa membri del Partito Comunista? Non è mica facile, anzi, per uno studente si tratta di svolgere alcune prove e accettare l’idea di sentirsi sempre sotto esame, non solo dal punto di vista degli studi universitari. Jing Li è una giornalista assunta in una delle riviste economiche più importanti del paese. Non nutre granché fiducia nei suoi governanti, ma da anni è iscritta al Partito. All’epoca dell’università aveva aderito per motivi che definisce «ideologici», anche se specifica che in seguito ha capito che la tessera del Pcc era utile soprattutto per trovare un buon lavoro. «I ragazzi si iscrivono per quel motivo», sostiene; del resto la sua disillusione fu massima quando in procinto di realizzare la tesi su come i media stranieri avevano parlato della crisi economica nazionale del 1989, scoprì solo a vent’anni, quando da Wuhan si trasferì a Pechino, il massacro di Tienanmen.
Proprio uno dei protagonisti della rivolta del 1989, Wu’er Kaixi, ha detto al “Telegraph” che i motivi che guidano gli studenti di oggi verso il Partito, sono tutt’altro che ideologici. «L’unica cosa che posso dire - ha affermato l’ex leader di Tienanmen di origini uighure - è che sicuramente non è l’ideologia che li guida. C’è un vuoto, anzi, ideologico in Cina in questo momento».
La giornalista Li conferma i passaggi necessari all’iscrizione, che i media, alla luce dei numeri di questi giorni prodotti dal ministero della Pubblica Istruzione cinese, hanno raccontato. Innanzitutto serve compilare una specie di application da realizzare nella facoltà in cui si studia; dopo l’iscrizione per un certo periodo bisogna scrivere delle relazioni che spieghino cosa pensa il candidato riguardo una certa serie di temi. A quel punto per quelli selezionati comincia l’iter vero e proprio: ogni tre mesi è necessario studiare una materia teorica extra stabilita dal Partito (spesso si tratti di studi sulla storia del Partito); questa prima fase si conclude con un esame.
Secondo quanto raccontato dagli studenti, non sono ammesse assenze ai corsi. Dopo l’esame parte un nuovo periodo di studio: una commissione analizza il comportamento del candidato, le sue attività scolastiche ed extra scolastiche, con tanto di investigazione tra studenti e professori. Alla fine di questo periodo c’è un voto che determina l’ammissione.
Ma prima di essere a tutti gli effetti membro del Partito Comunista c’è ancora un periodo di «controllo» della durata di un anno, durante il quale il candidato deve continuare la sua produzione di relazioni.
Infine si è ammessi.
Si tratta di un processo lungo e anche selettivo. Il Partito Comunista cinese ha infatti oltre 80 milioni di iscritti; secondo molti dei suoi membri più influenti sarebbero perfino troppi e anche per questo negli ultimi anni la selezione si è fatta più drastica: nel 2010 su 20 milioni di persone che hanno cominciato l’iter, solo il 14% è stato ammesso. Il numero sempre più esiguo di persone promosse giustifica due cose: chi entra nel Partito trova un posto di lavoro sicuro nella macchina statale e dei funzionari e in secondo luogo dimostra che per quanto le riforme abbiano introdotto meccanismi di mercato per i privati, lo Stato viene ancora visto come posto sicuro in cui progettare la propria vita in Cina.
La trafila inoltre, almeno per chi rimane nel Partito con lo scopo di diventare funzionario, prosegue unendo modernità e tradizione (gli esami imperiali): lo studio continua, così come le prove e gli incarichi, tanto che secondo alcuni autori, radunati dal professor Daniel Bell in un volume di recente pubblicazione (Bell D. - Chenyang L., The East Asian Challenge for Democracy:Political Meritocracy in Comparative Perspective, 2013) la Cina starebbe ormai offrendo al mondo intero un esempio di meritocrazia capace di confrontarsi con i più moderni – e spesso inefficienti - sistemi democratici occidentali.

“il manifesto”, 14 agosto 2013 

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