10.9.13

Franco Fortini sulla poesia di Sergio Solmi

Solmi può scrivere, nell'anno 1950, a proposito di una giornata d'estate: «acque d'argento e di mercurio, e in alto / il cielo caldo e puro e torreggiante / di tondi cirri, o bel compatto mondo», dove si sposano il sonoro endecasillabo tradizionale, i tre aggettivi spaziati e solenni, ariosteschi, il sottile gioco di echi («di tondi cirri, o bel compatto mondo»). Ma il verso che mi pare riassumere, anche moralmente questo poeta, è «ridente nulla che in sillabe esprimo». L'endecasillabo, con accento di settima è frequentissimo in Saba, inesistente in Montale, raro in Solmi dove, come in questo verso, vuol spezzare quel che di troppo cantante è nell'endecasillabo con il consueto accento di sesta. 
Quelle «sillabe» per dire le parole della poesia vengono da Montale, da una delle poesie di Ossi di seppia; «esprimo» viene dall'estetica crociana, la poesia come espressione. Quanto al «ridente nulla» ha certo una lunga catena di antecedenti, a partire da Nietzsche, dalla immagine indiana della danza dell’iddio della distruzione e dal sorriso di Budda sul Nirvana e la serenità di certi savi moderni, laici nella religiosità spiritualistica come il grande spagnolo Antonio Machado che Solmi ha tradotto e cui somiglia ma con una più oscura attrazione per l'oscuro. 
In un'altra sua poesia egli parla dei «ciechi iddii ridenti». Sono essi gli abitanti di quel «ridente nulla che in sillabe esprimo».

Da Breve secondo Novecento, ora in Saggi ed epigrammi, Mondadori, 2003

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